La vita di Mauro Corona diventa un film: «Ci tenevo a non morire frainteso»
Da lunedì 5 maggio nelle sale “La mia vita finchè capita”, il documentario dedicato allo scrittore. «Credo di avere pure una parte gentile, non sempre dominante, ma esiste»

Ce ne sono parecchi di Mauro che coabitano nello stesso umano corpo senza peraltro darsi noia l’un con l’altro: il Corona scalatore, quello montanaro, l’uomo delle sfide che sa come dosare le forze della natura e come negoziare col mondo animale, il Corona scrittore, più emotivo, perché chi manipola le storie è capace di avvertire il battito del proprio cuore e il Corona scultore, che vive di gestualità e d’istinto.
Volendo, possiamo aggiungere pure uno stato d’animo dominante: dal cortese al rude con lui è un attimo. Affabulatore colto è, invece, una certezza, altrimenti non si spiegherebbero le lunghe code dei lettori quando Mauro presenta uno dei suoi libri. Ne ha pubblicati a decine. Dal 1997.
C’è un comprensibile affollamento di Corona nel docu-film “La mia vita finché capita”, un’opera voluta e firmata dal regista giramondo Niccolò Maria Pagani, un giornalista con le scarpe dalle suole robuste: sono settantotto i Paesi visitati con lo zaino sulle spalle.
Lunedì 5 maggio il film arriva nelle sale — proprio il 5 maggio il protagonista sarà al Cinemazero di Pordenone, alle 20.45 — il giorno dell’ode manzoniana a Napoleone Bonaparte, il giorno dell’Ei fu.
Corona la sento lontano. Quale montagna sta affrontando oggi?
«Nessuna, cammino nel bosco. Finché sto qui e ho le gambe buone non chiedo altro».
Dunque, il 5 maggio uscirà — possiamo dirlo? — la storia della sua vita. Da dove cominciò l’avventura?
«Prima del ciak ero piuttosto scettico, glielo dico con sincerità, e adesso le spiego il perché. Trentadue anni fa girai per la Tv svizzera “L’uomo di legno”, che vinse tutti i premi dei festival di montagna. Ebbene, l’ho rivisto tempo fa e non mi sono piaciuto per niente, mi creda: sul grande schermo c’è un uomo arrogante, maleducato e spaccone, una recita abbastanza antipatica. Quando l’agente letterario mi propose questa nuova chance, subito pensai: scusa, ma a chi interessa di me? Dai. Poi ci ho pensato su: e se il nuovo film aiutasse a riscattare la mia brutta immagine di allora? Mica lo rinnego “L’uomo di legno”, sia chiaro, ma a settantacinque anni è doveroso chiudere i conti e chiederti chi sei stato e chi sei veramente».

Una specie di seduta dall’analista?
«Già. Credo di avere pure una parte gentile, non sempre dominante, ma esiste. Ci tenevo a non morire frainteso. Ha capito? Io sono spesso identificato come “quel” personaggio arrogante e pieno di sé. Facciamo vedere al pubblico anche il Mauro Corona più nascosto, che emerge meno, no?».
Stavolta com’è stato il confronto con sé stesso? Meglio rispetto a “L’uomo di legno”?
«Meglio, ma io non mi piaccio. Nemmeno la voce. Se al posto mio ci fosse stato un altro, ecco, me la sarei goduta tantissimo. Ho solamente cercato di essere ciò che sono, nessun filtro, nessuna maschera. Anche con i miei figli ho recitato la parte del burbero dispensando insegnamenti drastici. Ecco, così ho chiuso finalmente i conti, in bene. E l’avevo anticipato nel libro “Le altalene”. Lo ripeto, morire equivocati non è mai la fine migliore».
Chiariamo, Mauro, una volta per tutte: lei è nato in provincia di Trento o a Erto?
«I miei giravano il Trentino in primavera spingendo un carretto con sopra gli oggetti di legno fatti a mano durante l’inverno. E io sono venuto al mondo il 9 agosto sullo stesso carretto in mezzo a tutta la roba di legno. Io e mio fratello, quello morto in Germania a 18 anni, abbiamo vissuto sei anni in Trentino. Quindi: nato in provincia di Trento, ma i miei erano ertani doc».
L’attaccabrighe e l’artista in che modo convivono?
«Non tutti, ahimè, capiscono ‘sta cosa qui. E si sommano le inimicizie. Va detto, però, che talvolta sono strafottente con le persone sbagliate. Pensi alla Bianchina Berlinguer, povera, mi avvento contro di lei e non dovrei farlo. In tv, però, è difficile essere come sei. Diciamo che “La mia vita finché capita” è una vera confessione: penso di esserci riuscito. La mescolanza è forte: la convivenza fra il dolore del passato, quello del presente, l’alcolismo, la brutalità di mio padre; forse non servirà a niente, ma io mi sono liberato la coscienza. Molti degli amici della mia classe, il 1950, sono andati avanti, come dicono gli alpini. E io ogni mattina mi chiedo: quando toccherà a me? Potrebbe essere anche oggi? Mi crede se le dico che adesso me ne andrei tranquillo? Per settantacinque anni ho recitato una parte, adesso basta».
Teme la morte, Corona?
«L’imperativo dei potenti è: migliorare la condizione della vita. Io guarderei di più a quella della morte, invece. Si muore male e abbandonati. Sono stato recentemente al fianco di un mio amico molto malato che con grande sofferenza arrivava al tramonto. Non c’è stato verso di mandarlo di là un po’ prima, quel tanto che sarebbe bastato a evitargli i tormenti. Dove sta la pietà? Di quella morte ho paura io. E di non poter più godere dei piccoli riti giornalieri: andare al bar con gli amici, bere un bicchiere, giocare a morra, raccontare di noi. Godiamoci le piccole cose, fino in fondo, quando le facciamo. Me lo diceva anche Papa Francesco quando lo incontrai. E non me ne frega nulla se non vinco lo Strega o il Campiello. Non è una resa, attenzione, è soltanto la consapevolezza di un più sensibile rapporto con l’esistenza».
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