Con Baudo la tv era un trionfo del sempre uguale, sì ma con qualità

Era l’incarnazione della Rai perbenista che tante volte abbiamo criticato ma che ora rimpiangiamo

Alberto MattioliAlberto Mattioli
Pippo Baudo, Laura Pausini ed Enrico Ruggeri durante il Festival di Sanremo del 1993.
Pippo Baudo, Laura Pausini ed Enrico Ruggeri durante il Festival di Sanremo del 1993.

Non c’è niente da fare: l’unico vero immancabile destino nazionale sembra essere quello di rimpiangere ciò che si è detestato. Pippo Baudo era l’incarnazione della Rai democristiana, perbenista, moderata, rispettosa di valori e gerarchie, cautissima nelle sue innovazioni attentamente calibrate, vendicativa contro chi provocava davvero e ne veniva quindi bandito e, diciamolo, prevedibile nella sua ripetitività emolliente.

SuperPippo di questa tivù era il re, senza nemmeno le improvvise, ma non improvvide, fughe nel surrealismo di Mike Bongiorno, quando si inventava le famose gaffe o l’ironia sorniona e beffarda, sottotraccia, di un Corrado o di un Vianello.

Invece Baudo ripeteva in sostanza (d’accordo: meglio, perché aveva uso di mondo e di congiuntivo) i luoghi comuni più consolidati, in una liturgia televisiva, ed ecco a voi, un bell’applauso, perché Sanremo è Sanremo, alla fine consolatoria perché sempre uguale, come la versione catodica della messa (cantata, di solito).

Baudo ci credeva davvero, all’idea bernabeiana di una televisione educata ed educativa che, fra una velina governativa e l’altra, regalasse anche un po’ di evasione legittima e rassicurante alla vecchietta del paesino che non sarebbe mai potuta andare a Broadway oppure, più modestamente, al teatro Sistina e che tuttavia, al modesto prezzo del canone, il sabato sera si vedeva serviti nel suo tinello la grande star internazionale quando andava bene, oppure gli eccellenti professionisti autarchici quando andava meno bene (ma i favolosi show in bianco e nero di Antonello Falqui con Mina e Carrà, per citarne solo due, erano di una professionalità e un’eleganza che nulla avevano da invidiare appunto a Broadway o al West End, anzi...).

In quest’eterno ritorno del sempre uguale, venivano poi compiuti gli aggiornamenti resi indispensabili dai mutamenti sociali («caute aperture», in linguaggio democristiano, anzi doroteo), per cui le veline bionda e mora, diventate sessualmente scorrette, diventavano co-conduttrici, le gonne si accorciavano e nelle fiction edificanti compariva perfino, pensa un po’, il personaggio gay.

Poi venne la tivù fatta dalla «gggente», dagli uno di noi, l’equivalente del catastrofico «uno vale uno» che ha spazzato via dalla vita pubblica italiana qualsiasi competenza, curriculum, professionalità.

E dunque delitti e casi umani nelle trasmissioni “di cronaca”, e come show di prima serata il buco della serratura per spiare influencer, tronisti, avanzi di balera, bellone/i dalla professione incerta e altri tatuati mentre demoliscono fidanzamenti e consecutio temporum.

In questa televisione, ovvio, per la ferrea professionalità di Baudo non c’era più posto, esattamente come per i politici della Prima Repubblica che, per carità, non erano tutti santi (ma nemmeno tutti demoni), però gestivano il potere perché erano usciti da una selezione spietata e dunque ne avevano la competenza. Altro che uno vale uno: nell’evo baudiano, in tivù si andava perché si sapeva fare qualcosa, non per imparare lì a farlo (forse), con una brava gavetta alle spalle e qualche percettibile capacità, compresa quella dello stesso Pippo magno, di difficile definizione e tuttavia chiarissima quando si schiacciava il telecomando: saper presentare.

Perfino, nel suo caso, con qualche ambizione di divulgazione culturale, perché nei suoi programmi c’era sempre un angolo in cui spuntava il libro, il cinema, la musica “colta”; magari «for dummies», però c’erano.

Insomma, va a finire che avevano ragione la povera nonna o la cara zia: si stava meglio quando si stava peggio. 

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