Squid game chiama Hollywood: il colpo di scena finale e i motivi di un successo planetario
La serie tv saluta con un colpo di scena americano: ma il gioco della morte sempre più crudele è soprattutto lo specchio della cupidigia sociale

Game Over. Dopo tre stagioni “Squid Game”, la serie tv targata Netflix, scritta, diretta e ideata da Hwang Dong-hyuk, è arrivata al capolinea. Piaccia o no, «Il gioco del calamaro» è stato uno dei fenomeni televisivi più significativi degli ultimi anni. Non tanto per la sua dimensione distopica.
Nel 1982 Stephen King scrisse il romanzo “L’uomo in fuga” che 5 anni dopo divenne il film “L’implacabile” con Arnold Schwarzenegger, vittima di un crudele gioco a premi in stile gladiatorio, in cui vincere significa sopravvivere. Ma, in tempi più recenti, anche la saga di “Hunger Games” mette al centro una versione fantascientifica del “panem et circenses”: il gioco come strumento politico per governare le masse.
A colpire di più in “Squid game” è, però, la sua valenza allegorica. Uno specchio deformante sul cinismo e sull’avidità umana nell’era neoliberale. I partecipanti al gioco (in quel perverso e feroce capovolgimento dell’innocenza di passatempi infantili) hanno tutti qualcosa in comune. La sete di denaro e la condizione di eterni “debitori”. Il tutto sotto gli occhi e l’attenta direzione di qualcuno, come a voler dimostrare scientificamente che mors tua vita mea è un vero e proprio teorema.
“Squid Game” è disseminato di sillogismi sull’avidità: già in quella seconda stagione transizionale, l’alternativa offerta a uno stuolo di homeless (un panino per mangiare o un aleatorio “gratta e vinci”) si risolve sempre nell’opzione ludica (e perdente). Il miraggio di arricchirsi (anche a scapito di bisogni primari) è lo stesso che acceca i partecipanti al gioco. Che potrebbero, democraticamente, scegliere di fermarsi e spartirsi il patrimonio ma, di fatto, quell’opzione viene sempre abbandonata in nome di una cupidigia disumanizzante che li priva anche dell’identità.
Qualche anno fa Netflix aveva lanciato un altro “gioco” (e, un altro teorema). “Il buco” (produzione spagnola) – con la sua enorme tavola imbandita che attraversa in verticale un numero indefinito di piani occupati, ciascuno, da due prigionieri che si possono cibare delle pietanze per qualche minuto prima che i pasti scendano al livello inferiore – dimostrava l’assoluta mancanza di solidarietà tra gli affamati. Non solo gli occupanti dei piani più alti si ingozzavano per non lasciare nulla agli altri ma, sprofondando, la tavola veniva addirittura vandalizzata per il solo gusto di far morire di fame chi sta più in basso. Disuguaglianze sociali che, evidentemente, sono il nervo scoperto di un paese come la Corea del Sud: da pochi giorni il New York Times ha eletto “Parasite” miglior film del secolo.
Anche per quella sua rappresentazione simbolica tra chi sta sotto e chi sta sopra e quel desiderio “bestiale” di risalire in superficie a tutti i costi. Senza lesinare critiche a chi guarda. “Squid Game”, in questo senso, è, ovviamente, anche il trionfo del voyeurismo: pochi sadici miliardari che guardano gli uomini diventare lupi, sovvenzionando i giochi e godendosi la morte in diretta.
Come accadeva in “Hostel” dove altri miliardari pagavano per torturare, direttamente, ignari turisti rapiti. Gli inglesi userebbero la formula “peeping Tom” (titolo originale anche di un capolavoro del cinema firmato Michael Powell) che, in soldoni, vuol dire “guardone” e deriva dalla leggenda di un sarto che violò la promessa di non sbirciare Lady Godiva mentre cavalcava nuda in città in nome di un popolo oppresso a cui era stata chiesta solo la decenza di non spiare. Tom sbirciò e … rimase cieco.
Ed è, forse, questo l’aspetto più ambiguo e interessante di “Squid Game”. Sotto tonnellate di immagini “derivative”, rivoli di trama che si perdono, esagerazioni, merchandising spinto e un finale hollywoodiano con colpo di scena (che apre ad uno spin-off americano della serie diretto, pare, da David Fincher), alla fine, i “guardoni" siamo anche e soprattutto noi. Sarà anche finzione, ma la brama di vedere giochi sempre più crudeli, sangue e scorrettezze di ogni tipo è, in fondo, l’enzima stesso della visione. Guardare la serie ci rende, in fondo, partecipi (e, persino, correi) del gioco mortale. Quello specchio deformato restituisce il nostro stesso riflesso.
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