Con Robespierre al cuore della Rivoluzione

Lo studioso Migliorini racconta uno dei padri della Prima Repubblica francese: «Un uomo d’ordine che diventa protagonista della grande trasformazione»

Nicolò Menniti Ippolito
Maximilien Robespierre.
Maximilien Robespierre.

 

Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento si è consumata una rottura storica nella cultura politica dell’Occidente. Luigi Mascilli Migliorini è uno dei massimo studiosi di questo periodo storico, che ha avuto nella rivoluzione francese e poi nell’avvento di Napoleone il suo apice.E Robespierre è stato uno dei protagonisti.

Robespierre è stato un ribelle, un rivoluzionario, ma per certi aspetti sembra anche un uomo d’ordine. Quale aspetto prevale in lui?

«È soprattutto un uomo d’ordine. Viene da un’educazione molto tradizionale, figlio e nipote di avvocati di provincia, era destinato a un certo tipo di vita se non fosse che poi arriva la rivoluzione. Piuttosto che un ribelle direi che è un rivoluzionario: non sempre le due parole coincidono, anzi talvolta sono proprio uomini un po’ più rigidi degli altri che diventano i protagonisti dei processi di grande trasformazione».

Il ribellismo quindi appartiene all’epoca più che alla sua natura.

«Sì, ma è una ribellione di tali dimensioni, di tali ambizioni che la chiamiamo rivoluzione, anche perché permane nel tempo. A differenza delle ribellioni che sono impetuose, spesso molto generose e talvolta ingenue, le rivoluzioni presuppongono un’organizzazione che finisce con l’essere poi il problema. Il termine rivoluzione viene dal linguaggio scientifico e indica il moto circolare che si fa intorno a qualche cosa, la terra intorno al sole per esempio. Questo movimento ti riporta allo stesso punto di prima: le rivoluzioni sembrerebbero condannate, a differenza delle ribellioni, a tornare al punto da cui sono partite».

Robespierre è stato visto come eroe o come un sanguinario. Quale immagine gli si avvicina di più?

«È un uomo che comprende profondamente l’importanza di una rivoluzione nata per ottenere obiettivi e risultati determinati e limitati, ma che si trasforma, per una serie di eventi, in una tempesta. Ecco, chi si accorge per primo delle nuvole che si addensano e della dimensione della tempesta è Robespierre, che per questo si pone il problema di come governarla per poi uscire dall’altra parte. Quindi io lo definisco un eroe, visto che ha usato questo termine, ma un eroe del tempo breve. Sa che è finito dentro un uragano e questo impone una condotta tale che porti poi di nuovo al sereno. Questo spiega la sua duplicità: lui è un uomo di stabilità e però anche uno che capisce che cosa vuol dire la Rivoluzione».

Intransigente, incorruttibile. Mito o realtà?

«Da quel che sappiamo sono tratti reali che si trasformano anche in una prigione per il personaggio. Però noi lo crediamo un estremista, mentre a ben vedere è un timoniere che avverte la necessità di tenere la barra dritta. In ogni momento della rivoluzione lo troviamo in posizione centrale, solo che questa centralità cambia a seconda dei venti che tirano. Usando un linguaggio contemporaneo lui reprime a destra come a sinistra perché gli eccessi possono essere di diversa matrice».

Il Terrore, insomma.

«Considera il Terrore un’assoluta necessità in un momento in cui ci sono due forze che si combattono: da una parte c’è un’Europa conservatrice e reazionaria che dichiara guerra alla Francia col desiderio di spazzare via la rivoluzione; dall’altra c’è invece un movimento ondivago, a volte troppo preso da parole d’ordine così astratte che invece di rafforzare la rivoluzione la infragiliscono. Robespierre sente di essere quello che deve stabilizzare la Rivoluzione, sventando sia il ritorno reazionario sia le fughe in avanti».

Per lui la Rivoluzione è anche un fatto morale?

«Robespierre, intravedendo la fine del della tempesta del processo rivoluzionario nella sua forma più terribile, si pone il problema se la rivoluzione abbia compiuto tutto quello che aveva dichiarato. Volteriano, figlio del Settecento, dell’Illuminismo, è preso dall’idea che se una rivoluzione non ha una profonda capacità di trasformare l’umanità, non valeva la pena di farla. E qui si mette per una strada molto insidiosa, che insospettisce anche chi lo ha sostenuto. Va detto però che il problema della modalità di una rivoluzione è un tema complicato per molti aspetti».

Per esempio?

«Se vogliamo prendere una lezione per l’oggi, bisogna dire che è difficile vivere senza avere una speranza rivoluzionaria. La perdita dell’idea di un cambiamento profondo, significativo, non solo dei contesti esteriori ma anche di noi stessi, sta producendo una serie di smagliature, perché ci sono generazioni che stanno crescendo in alcune parti del mondo, prive di ogni prospettiva di cambiamento e anche della idea stessa che si possa cambiare». 

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Chi è

Membro dell’Accademia dei Lincei, presidente della Sisem e professore di Storia moderna presso l’Università L’Orientale, Luigi Mascilli Migliorini è uno dei maggiori studiosi dell’età napoleonica e della Restaurazione in Europa, a cui ha dedicato due importanti biografie: Napoleone, Salerno Editrice (2002 e nuova edizione 2015, Premio della Fondation Napoléon) e Metternich, Salerno Editrice (2014, Premio Filippo Burzio dell’Accademia delle Scienze di Torino e Premio Rhegium Julii). È Commandeur de l’Ordre des Palmes Académiques, Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres della Repubblica francese e professore invitato presso l’École Normale Supérieure a Parigi e l’Università Cattolica di Santiago del Cile. Fa parte del Comitato scientifico della Correspondance di Napoleone presso l’editore Fayard. Per Laterza è autore, tra l’altro, di 500 giorni. Napoleone dall’Elba a Sant’Elena (2016); Storia del mondo. Dall’anno 1000 ai giorni nostri (con F. Canale Cama e A. Feniello, 2019); L’età moderna. Una storia globale (2022).

 

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