Tra il fango e la neve: il viaggio di Paolo Rumiz nei luoghi della Grande guerra
Dal Monte Grappa a Redipuglia: la durezza della terra e il silenzio bianco delle vette, la materia e la memoria nel reportage narrativo di Paolo Rumiz

Quando si stava avvicinando il centenario della Prima guerra mondiale, Paolo Rumiz decise di ripercorrere quelle trincee che avevano visto massacrarsi centinaia di migliaia di uomini. Voleva toccare con le scarpe e con la penna i seicento chilometri del fronte italo-austriaco.
Partì col treno, viaggiò come un viandante con bastone e zaino, salendo e scendendo dalle cime, dal Monte Grappa all’Altopiano di Asiago, dall’Isonzo a Redipuglia, da Trieste al Passo del Tonale, prendendo appunti, sudando nel caldo e rabbrividendo di pioggia.

Quel viaggio, raccontato allora per Repubblica, diventa adesso un libro, pubblicato da Bottega Errante, Il fango e la neve. Viaggio nei luoghi della Grande Guerra (156 pagine, 17 euro). Un titolo che già contiene l’essenza del racconto: la durezza della terra e il silenzio bianco delle vette, la materia e la memoria. La melma umana della trincea, il ghiaccio assoluto delle cime. Una discesa nel paesaggio della memoria che diventa corpo, piede che affonda, occhio che scruta, respira.
Il giornalista e scrittore triestino ha scelto la modalità del reportage narrativo: «Ne avrei di storie da raccontare, ma temo che il mio diario diventi altra cosa, una delle città invisibili di Calvino, un porto sepolto di Ungaretti», scrive. Ecco dunque che le montagne diventano palcoscenici non solo per la bellezza, ma per l’assurdo della guerra.
Pioggia, neve, luoghi dimenticati o iper-commemorati che Rumiz percorre con lo sguardo del viaggiatore che non vuole essere solo spettatore, ma parte del paesaggio, del silenzio, della pietra scossa dal tempo. Il fango è detrito, la neve è pulviscolo, ma anche la speranza che “non può non essere” in un luogo che ha registrato tanto male. Rumiz non ci costringe a soffrire: ci accompagna.
Non ci parla dall’alto: cammina con noi. Il paesaggio non dimentica, sembra dire ogni sua pagina. E davvero, in questo libro, la natura diventa archivio e testimone. Il fango che imprigiona i passi e la neve che tutto avvolge non sono soltanto elementi di scena: sono il modo in cui la terra conserva la memoria dei caduti, il linguaggio con cui il paesaggio racconta la sua storia.
Non c’è enfasi patriottica, né retorica del sacrificio. Rumiz preferisce la misura, il rispetto, la pietas. Si sofferma sulle storie minori: le portatrici carniche, i contadini, le famiglie che videro partire i loro figli e non li rividero più. Ricorda come le montagne della guerra siano oggi luoghi di pace, ma anche di oblio: dove il turismo ha cancellato le cicatrici, lui cerca le tracce, gli indizi, le parole che resistono. E quando occorre, dichiara l’assurdo: «un canto poetico e crudo, di rabbia e speranza, di meraviglie e sconforti».
La guerra appare – inevitabilmente – come atto odioso, ma anche come via di una memoria che corre tra i vivi e i morti. Rumiz ci mostra luoghi “sacri” della Prima guerra mondiale, luoghi che hanno segnato l’Europa per sempre, e nelle pagine del libro si sente forte il legame con il Nordest, con quella frontiera che Rumiz racconta da decenni.
Il Friuli, la Slovenia, il Carso triestino: paesaggi che per lui non sono confini ma ponti. In questi territori di mescolanza, dove le lingue si sfiorano e si contaminano, il ricordo della guerra assume un valore particolare.
Non più scontro tra nazioni, ma memoria condivisa di un dolore comune. Il libro restituisce la guerra come paesaggio, come cammino, come discorso sui vivi e i morti, sull’identità, sull’Europa che fu e che è.
Già l’Europa. Dov’è l’Europa, si chiede Rumiz nella prefazione scritta oggi, davanti a quanto accaduto in Ucraina, in Israele e a Gaza. La guerra, che dieci anni fa sembrava non ci riguardasse più, ritorna adesso presente nel lessico quotidiano.
Sarà l’Europa in grado di rispondere? Battersi, si chiede Rumiz. D’accordo. Ma per quale patria? L’Europa dell’euro e dei banchieri non ha mai scaldato i cuori. Bisogna cercarne l’anima. Allora forse ripercorrere le trincee della Grande guerra, guardando alla capacità di ricominciare che ebbero quegli uomini, può aiutare a ritrovarla.
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