Così il rock ci ha cambiato la vita
I 50 anni di due pietre miliari: "Wish You Were Here", il diamante pazzo dei Pink Floyd e "A Night at the Opera", il quarto capitolo dei Queen con Freddie Mercury
“Bismillah!” esulta Freddie Mercury quando Bohemian Rhapsody arriva al minuto tre e trentasei. “In nome di Dio!”, canta come se invocasse forza e salvezza per sé, i Queen e il rock che comincia a svanire nell’ultimo quarto del secondo millennio.
Il 1975 è uno spartiacque: si sente odore della nuova musica, con i germogli del punk, la fusion che avanza e la disco che si prepara agli Ottanta, decennio dell’edonismo e del ballo diffuso. È un brano da circo, un cocktail sorprendente di sonorità che, celebrando Galileo e Belzebù, vola in testa alle classifiche con il padellone da cui è tratto, A Night at the Opera. Certo il successo dell’anno, se non fosse per un album introverso, profondo e toccante: Wish You Were Here dei Pink Floyd, un titolo essenziale capace di vendere un milione di copie ancora prima di arrivare nei negozi, per poi restare inciso a fuoco nella memoria collettiva dei ragazzi di tutte le età.
Un momento di svolta
Succedono cose, in quei mesi. Il mondo rialza la testa dopo lo choc energetico e la guerra del Vietnam trova finalmente un epilogo. La crisi cede al desiderio di rivalsa e la musica comincia a superare la sua natura di fenomeno culturale per diventare sempre più industria.
I gusti si frammentano, segnalano tempi di metamorfosi di cui Queen e Pink Floyd si impossessano con stili antipodali. A Night e Wish sono le due facce della stessa medaglia: una festa scoppiettante l’uno, un’autoanalisi ossessiva il secondo. Propongono melodie e suoni che rifuggono l’ammiccante, due canti liberi scritti da gruppi inglesi sull’orlo di una crisi di nervi per motivi opposti.
I Queen non hanno soldi perché traditi da un management con la sindrome del vampiro; i Floyd hanno le tasche piene ma rischiano di esplodere dopo aver prodotto uno degli album più venduti di sempre, The Dark Side of the Moon. Entrambi cercano la risposta dentro di loro e la trovano con un coraggio visionario di cui, oggi, si sentono solo blande tracce negli scheletrini digitali che scaturiscono dai nostri telefonini.
Wish You Were Here: la genesi di un capolavoro
Wish You Were Here esce il 12 settembre 1975. I contrasti fra Roger Waters (basso) e David Gilmour (chitarra) sono manifesti e il resto della band – Nick Mason (batteria) e Richard Wright (tastiere) – fatica a tenere insieme i pezzi. La genesi del disco è laboriosa; la noia che ha contagiato i musicisti emerge evidente dalle interviste.
C’è un’atmosfera da “vorrei non essere qui” quando si ritrovano in studio con alcuni brani già presentati dal vivo nell’autunno precedente, come il sontuoso Shine On, titolo all’inizio privo di quel You Crazy Diamond che commemorerà l’ex compagno di strada, Syd Barret.
Si litiga sulla tracklist: restano fuori due canzoni che finiranno su Animals nel gennaio 1977. La svolta arriva con Have a Cigar, che mette tutti d’accordo, e Welcome to the Machine, che prende a pugni l’industria musicale. In maggio Gilmour accenna la traccia della futura titletrack e Waters chiede: «Cos’è questa?». Lavorano insieme e creano il capolavoro, con un testo che sublima le ossessioni e le amarezze quotidiane. Nasce Wish You Were Here, il brano perfetto che diventa il titolo dell’album. Applausi.
A Night at the Opera: il trionfo dei Queen
In quegli stessi mesi, i Queen vagabondano fra sette studi londinesi in cerca di ispirazione. Dopo i consensi di Sheer Heart Attack (1974), la band fatica a coniugare il pranzo con la cena, ma non vuole mollare. L’impasse viene rotta da Freddie Mercury, che si presenta con Death on Two Legs, scaricando la rabbia contro il manager che li ha truffati.
C’è un caleidoscopio di suoni: echi di hard rock, tocchi prog, voci operistiche. John Deacon regala You’re My Best Friend, Roger Taylor scodella I’m in Love with My Car, Brian May cala la profetica Prophet’s Song. Poi arriva Bohemian Rhapsody: una minisuite cattiva e accattivante, che sposa hard rock e opera in meno di sei minuti. Con un geniale videoclip, diventa una marcia trionfale.
Due dischi immortali
Alla fine sono i colori a coniugare nell’empireo i due dischi. Wish esce incellofanato in plastica grigio petrolio, ma dentro è bianco. A Night, con la copertina bianca, gioca sull’ironia dei titoli dei fratelli Marx. Due album visionari che, oggi, rappresentano pilastri della musica classica rock.
Post scriptum
Quale scegliere? «Non ci sono dischi belli o brutti, ma solo dischi che ascolti o no». Conosco Wish e A Night a memoria, ma negli ultimi dieci anni i Floyd tornano puntuali sul piatto. Deve essere colpa dell’anima perduta nella vasca dei pesci.
“Born to Run” di Bruce Springsteen
Registrato a New York e uscito il 25 agosto 1975, “Born to Run” è il terzo disco del Boss, il primo a raccogliere un vero riscontro commerciale. La fortunata title-track gli apre le porte del successo mondiale tutt’oggi non può mancare nei suoi live.
“Horses” di Patti Smith
“Gesù è morto per i peccati di qualcuno, ma non i miei”: così parte “Gloria”, prima traccia del debutto di Patti Smith, “Horses”. Prodotto da John Cale agli Electric Lady Studios, l’esordio dell’artista americana è una pietra miliare dell’art rock.
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