Lo scrittore Belpoliti e il suo Nord elusivo
Dopo “Pianura” esce la seconda opera dello scrittore emiliano nella cinquina del Premio Campiello. «È un genere un po’ a sé, che non c’era. Questo ne rende difficile la collocazione»

Marco Belpoliti è un letterato anomalo. Grande studioso di Primo Levi, di Gianni Celati, di Italo Calvino, è altrettanto attento agli aspetti antropologici, semiotici, iconografici della contemporaneità, spesso interpretata attraverso gli occhi dei fotografi. La sua vena narrativa, sempre mescolata con la saggistica, è maturata tardi, solo con Pianura (Einaudi), uscito quattro anni fa. Nord nord (Einaudi, p.288, 20 euro) ne è in qualche modo una continuazione. Dall’Emilia si passa alla Lombardia in un racconto rapsodico di luoghi, personaggi, manufatti. Il libro dello scrittore emiliano è nella cinquina dei finalisti al Premio Campiello 2025.
Per Nord nord, come per il precedente Pianura si è parlato di autobiografia estroversa, di autotopografia per affermare la centralità dei luoghi, di eterobiografia per sottolineare il rispecchiarsi in altre persone. Quale definizione la convince di più?
«Per me è una narrazione di storie in cui io sono la voce narrante. Alcune di queste storie certo appartengono alla mia vita personale o lavorativa, ma la mia autobiografia c'è solo per quel che basta a fare da cornice a queste storie: non c'è un io narcisistico, né autocentrato. Non è neanche un’autofiction; direi che, forse, come ha scritto qualcuno, è un genere un po’ a sé, un genere che non c’era e questo rende difficile ai critici collocarlo. Ma non credo che i lettori facciano troppo differenza tra saggi, narrazioni, romanzi, autobiografie. Se un libro piace lo leggono, altrimenti no».

La particolarità è data dall’uso del tu, invece che dell’io.
«Avevo cominciato a scrivere una parte abbastanza piccola di queste storie usando la prima persona. L’ho letta, riletta ma solo quando mi sono seduto di nuovo al tavolo e ho provato a usare il tu, ho sentito che funzionava: è un fatto di orecchio, mi sembrava che creasse uno spazio narrativo più consono sia alle storie che alla ricezione da parte dei lettori».
Nel libro ci sono moltissimi personaggi incontrati, da Arbasino a Consolo, da Scianna a Mari e di ognuno di loro cerca un dettaglio capace di dare il senso dell’uomo. E’ un procedimento mutuato dalla passione per la fotografia?
«Quando incontriamo qualcuno ci colpisce l'insieme della persona: il suo viso, il suo corpo, i suoi gesti, la voce. Però poi resta impigliato nella rete del ricordo un singolo dettaglio; ecco, spesso si raccontano le persone, anche quelle che non ci sono più, a partire da un vestito, da una parola detta, da un racconto: dettagli di ordine visivo, ma anche auditivo. Quindi sì, possiamo paragonare questi ritratti ad uno scatto, perché colgono un istante, un momento. Come insegna Proust però quel quell'attimo, quel momento diventano generativi e definitivi».
Il libro parla del Nord come elemento geografico, geologico, sociologico, antropologico, ma si intitola “Nord nord”
«È un raddoppiamento che non è stato ideato da me, ma da Ernesto Franco, il direttore dell’Einaudi, morto purtroppo la scorsa estate. Il Nord nord contiene il senso della pluralità. Ci sono tanti nord. Io sono nato in Emilia che è a nord, ma poi il Po è più a nord, e c’è il nord della Lombardia, della Val d’Aosta: anche il nord è soggetto ad una relativizzazione».
Una delle protagoniste del libro è Milano.
«Milano è Mediolanum, la città che sta in mezzo alla pianura, ma ci sono anche Monza, c’è Bergamo, c’è molto la Brianza che è un luogo che mi appartiene: una super-regione composta di tante province e dai confini non definiti».
E’ anche un libro di viaggio. Cosa deve in questo a Celati?
«Celati viene da una tradizione che è quella dei viaggiatori del Grand tour, ma ha fatto una cosa che non aveva fatto nessuno: è andato a vedere i luoghi periferici, squallidi, le campagne industriali degli anni 80 a cui nessuno prestava attenzione, raccontando il quotidiano delle cose. Anche i luoghi abbandonati, anche le villette geometriche, hanno una loro anima, emanano una loro atmosfera. Questo è stato un grandissimo insegnamento».
Ci sono molti riferimenti anche alla geologia. Cosa racconta?
«La terra è qualcosa con cui siamo sempre a contatto e la possiamo analizzare in forma scientifica, la geologia appunto. Io invece ho provato a narrarla, come nel caso dei massi erratici della Brianza, che hanno una storia di milioni di anni».
Lei è uno dei massimi studiosi di Primo Levi, che ha vinto la prima edizione del Campiello. La emoziona essere in cinquina?
«Se penso a Levi e agli scrittori che ho studiato e che hanno partecipato mi emoziona molto. Poi è interessante fare questo viaggio in Italia per le presentazioni: aiuta a capire cosa è cambiato ». —
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