Le emozioni in scatola ad alta quota: storia dei bivacchi attraverso un secolo

Nelle librerie il saggio di Luca Gibello racconta il percorso di queste cellule minime di sopravvivenza sulle montagne

Melania Lunazzi

I piemontesi li volevano scomodi, per evitare che ci arrivassero gli escursionisti, i milanesi volevano poterci stare anche in piedi e gli orientali si aspettavano qualche comodità in più, ricorda un testo del 1932 in cui si dibatte tra alpinisti accademici sul comfort dei neonati bivacchi. Compie cento anni l’invenzione della struttura d’alta quota nata come ricovero d’emergenza per gli alpinisti e, ad onorarla, è appena uscito in libreria, per i tipi del Club Alpino Italiano, un accurato saggio dell’architetto piemontese Luca Gibello – già autore di un bellissimo lavoro sui rifugi alpini – che ne ricostruisce storia ed evoluzione.

I bivacchi delle Alpi. Cento anni di emozioni in scatola (255 pagine, 26 euro, con prefazione di Irene Borgna e postfazione di Riccardo Giacomelli) racconta, con competenza e completezza tecnica, il percorso compiuto fino ad oggi da questa “cellula minima di sopravvivenza” tra le montagne, un’invenzione tutta italiana la cui costruzione seriale fu avviata tra 1923 e 1925 a Torino grazie ai Fratelli Ravelli, con il nome di bivacco-fisso (con il trattino) per distinguerlo da quello ottocentesco “alla bella stella”, esperito in natura e all’aperto dai nostri pionieri come Julius Kugy.

In Friuli Venezia Giulia ne esistono venticinque, inclusi due per soli speleologi ed esclusi i ricoveri di varia genesi e natura, tutti elencati sul sito regionale del Cai alla voce “opere alpine”. Sull’arco alpino sono 450, di cui 250 sul versante italiano: un numero considerevole, che contribuisce a rendere la montagna più frequentata e in molti casi, come in quello del recente Bivacco Luca Vuerich sulla cima del Foronon dal Buinz, nel gruppo del Montasio, meta stessa esclusiva dell’escursione. L’idea del bivacco fisso nasce invece da principi opposti, in seno al Club Alpino Accademico, l’élite degli alpinisti affrancatisi dalla tutela delle guide alpine, con il desiderio di “voler raggiungere, con l’autonomia, il totale isolamento nell’aspra natura dell’alta montagna” e con lo scopo di creare qualcosa di distinto dai rifugi, già allora considerati troppo confortevoli e affollati dalle “masse”.

La ricostruzione di Gibello indaga nei dettagli le caratteristiche dei prototipi, messi a punto agli inizi soprattutto sul Monte Bianco: essenziali erano la prefabbricazione, la facilità di trasporto a spalle in piccoli pezzo e il montaggio veloce, la resistenza agli agenti atmosferici, la poca manutenzione e i costi limitati. Lamiera e legno i materiali usati: dei primi a semibotte alti 1, 25 metri, creati dai Fratelli Ravelli e installati fino agli anni Cinquanta, ne sono in uso ancora quattro, tre dei quali sul Bianco. Poi c’è stato il modello Apollonio, che prende il nome dall’ingegnere e alpinista cortinese Giulio: bivacchi più alti, più capienti e con la porta dimezzata per poterci entrare anche in caso di neve. Ne sopravvivono tre anche da noi: il Greselin sul Duranno, lo Stuparich e il Suringar nel gruppo del Montasio, veri nidi d’aquila, quest’ultimo sospeso in parte sul vuoto. Il successivo modello veneto Fondazione Berti, dagli anni Sessanta un’evoluzione dei precedenti, è stato poi smantellato per la presenza di amianto.

E nel contemporaneo? A un nostro grandissimo alpinista, il cervignanese Giusto Gervasutti è intitolato uno dei bivacchi più avveniristici e rivoluzionari delle Alpi, a forma di cannocchiale e replicato solo sull’Elbrus per i costi elevati. Ma il libro di Gibello, che analizza alcune delle più bizzarre o spartane invenzioni disseminate tra le Alpi negli ultimi decenni – alla vicina Slovenia, ad esempio è dedicato un interessante capitolo – pone interrogativi e riflessioni che sono tema attuale del dibattito nel Cai, con la presenza di troppe strutture che attirano episodi irrispettosi di vandalismo o decadimento dell’ambiente circostante.

Ancora un esempio in regione, oltre al Bivacco Vuerich, più volte vandalizzato, il Bivacco Perugini al Campanile di Val Montanaia, oggetto già dagli anni Ottanta di proposte di smantellamento. E allora aumentare le strutture o smantellare quelle in eccesso? Privilegiare l’accessibilità alla montagna di tutti o la sicurezza di pochi? La questione rimane aperta. 

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