Giovanni Nistri: «Servire lo Stato è proteggere l’uomo e la sua memoria»

In Ho servito lo Stato l’ex comandante generale dell’Arma racconta una vita tra disciplina, bellezza e responsabilità: «La misura dell’uomo è nella sua integrità»

Marina Tuni

C’è una misura quasi musicale nella prosa di Giovanni Nistri. In Ho servito lo Stato (Neri Pozza), autobiografia atipica uscita il 24 ottobre, il già comandante generale dell’Arma dei carabinieri, che guidò anche il Comando Tutela patrimonio culturale e il Grande progetto Pompei, racconta senza trionfalismi una vita che fa del servizio una pratica di rispetto e responsabilità.

Un libro scritto – racconta – anche per la nipotina Emma, perché un giorno sappia chi era davvero suo nonno, non dalle cronache ma dalla sua voce.

Seneca diceva che «comandare sé stessi è la forma più alta di comando»: così il volume restituisce l’immagine di un uomo che ha servito lo Stato restando fedele ai propri principi, consapevole che nessun traguardo è solo personale ma nasce anche dalla fiducia e dall’affetto di chi condivide il cammino. Non ci sono proclami o rivelazioni, ma la voce limpida di un uomo che ha attraversato la storia italiana con rigore e pietas, comprendendo che l’ordine senza cultura è vuoto e che la bellezza custodita salva il mondo dal disordine, ed è la sola eternità concessa ai mortali.

I proventi spettanti all’autore saranno devoluti all’Opera nazionale assistenza orfani dei militari dell’Arma, con un contributo a “Fuori dal nido” - Urbino, a sostegno di persone con disabilità.

Generale, nel suo libro emerge una figura di militare profondamente umanista. Quale ruolo hanno avuto la cultura e le arti nel trasformare l’obbedienza in pensiero, e il comando in una forma di responsabilità morale?

«Non parlerei tanto di cultura, termine che associo più agli intellettuali, ma di educazione maturata in famiglia, e formazione alla Scuola militare Nunziatella di Napoli e all’Accademia di Modena. I loro motti “Preparo alla vita e alle armi” e “Una Acies” esprimono l’idea di formare la persona prima ancora del militare e di essere uniti in un ideale comune. Se aggiungiamo l’iconico “Nei secoli fedele” dell’Arma, comprendiamo come obbedienza e comando siano per me principi fondanti. La curiosità di apprendere, più che la cultura come cornucopia di conoscenza, ha alimentato il mio modo di essere Comandante».

Nelle sue parole si percepisce che ogni decisione nasce da un confronto interiore, dove la disciplina incontra la coscienza. Nei momenti in cui il dovere imponeva scelte dolorose o il comando diventava solitudine, da dove traeva la forza per non smarrire la misura dell’uomo?

«Comandare vuol dire scegliere, scegliere vuol dire rinunciare», disse un collega dell’esercito spagnolo. In quella frase, a mano a mano che le evenienze del servizio e del comando decantavano nella maturità della riflessione, c’è la verità: scegliere significa rinunciare al conforto dell’unanimità, anteporre la regola al sentimento, l’equanimità alla simpatia. Nelle decisioni più dolorose si è spesso soli con la propria coscienza e con il quadro normativo che la comprime. La misura dell’uomo, credo, sta nella sua integrità, anche quando occorre rivedere le proprie scelte se si rivelano sbagliate o non più aderenti alla realtà».

Pompei non è stata per lei solo un luogo da restaurare, ma un confronto con il tempo e con la fragilità umana. Quanto quella sfida ha rappresentato una metafora del servire lo Stato come atto di custodia della bellezza e della memoria?

«Come lei ben sa, il Codice dei beni culturali li definisce “testimonianza avente valore di civiltà”, di cui riflettono la storia, l’evoluzione della civiltà e la nostra memoria identitaria. Pompei, poi, ha un significato universale: il segno di una tragedia collettiva, drammaticamente rappresentata dalla pietrificazione dell’orrore, disvelato dai corpi restituiti alla luce, che il tempo ha trasformato in memoria. Per me è stato un privilegio, oneroso e insieme appagante, contribuire alla sua rifioritura e a una fruizione più accessibile, restituendole il ruolo di eccellenza che le spetta per storia e destino. La sua rinascita è divenuta un’esperienza di successo nazionale che ha mostrato un’Italia capace di impiegare al meglio le risorse assegnatele. Per questo ringrazio il personale militare e civile che mi ha affiancato: il risanamento del sito è stato uno dei servigi più fruttuosi resi in nome dello Stato».

Lei ha ricordato che la verità non è mai bianca o nera, ma un intreccio di infinite tonalità. Come si difende la complessità in un tempo che tende a ridurre tutto a semplificazione e giudizio immediato?

«Nel libro dedico un capitolo ai valori che mi hanno guidato: Lealtà, come rispetto verso gli altri; Esempio, nutrimento indispensabile per rendere credibile ogni disposizione; Onestà, materiale e intellettuale, da cui derivano attitudine ad assumersi la responsabilità delle decisioni prese, equilibrio, coerenza, senso del dovere. Cercare di restare fedele a questi valori mi ha aiutato a non cedere alla semplificazione e a riconoscere le infinite tonalità che avvolgono l’esistenza, le istituzioni e gli uomini».

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