Beltotto: «Voglio trasformare il Teatro Stabile in una comunità culturale nazionale»

Il presidente TSV ha vinto il prestigioso Premio Enriquez e ora progetta una rete culturale dell’Alto Adriatico, passando per il “Cantiere Goldoni” e la sfida di rendere la cultura un vero motore di crescita per il Nordest 

Jacopo Guerriero
Giampiero Beltotto
Giampiero Beltotto

Sorride e spiega che no, non se l’aspettava. «Sarà che, ovunque vada, poi resto minoranza». Passione, una certa idea di militanza rinviano, ad ascoltarlo, a un impegno che viene da lontano, ma Giampiero Beltotto non sembra un sentimentale, gli interessa il futuro.

Da Presidente del Teatro Stabile del Veneto, ha appena vinto il Premio Enriquez. È tra i maggiori riconoscimenti nel mondo del teatro italiano. Nella sua vita ha interpretato ruoli diversi: giornalista, scrittore, portavoce, esperto di comunicazione e poi d’impresa.

Il teatro però c’è sempre stato.

«Sì, fin da quando ero un ragazzo. E, a Milano, erano gli anni settanta, Paolo Grassi aveva avviato l’esperienza del Teatro Tenda. Una delle mie professoresse, al liceo, ci diede i biglietti. Non ho più smesso. Qualche volta mi annoio, ovviamente».

Un’era differente. Alle arti si chiedeva di cambiare la vita. Anche sul sito dell’Enriquez, peraltro, si dice che il teatro ha un ruolo importante «nell’esplorare i terreni dell’esistenziale».

Concorda?

«Sono parole che centrano in pieno l’essenza del lavoro che stiamo provando a fare. Le preferisco rispetto a una certa idea di intrattenimento, scipita. Quelli che le hanno scritte sono dalla parte giusta della storia. C’è pure un elemento che vorrei sottolineare».

Quale?

«Sono grato al Premio di avere scorto questo impegno nel contesto di una regione che spesso sfugge ai radar nazionali».

Resta che un’idea di umanesimo pare tramontare. È tempo di abbandonare gli occhiali del Novecento nell’organizzazione culturale?

«Sì e no. Io rimprovero ancora ai miei maggiori – mi sento figlio del popolarismo cattolico – di non avere fatto valere un punto di vista differente rispetto a quello marxiano nella formazione della classe dirigente culturale».

Lei programma stagioni in tutto il Veneto. Lavora a coproduzioni internazionali?

«Da tempo e non sono da solo. A guidare tutto c’è un noi. Devo dire grazie a Filippo Dini, direttore artistico e a Claudia Marcolin, direttore generale. Lavoriamo con il sorriso e sono lieto di notare che abbiamo raddoppiato, durante questa consiliatura, i biglietti venduti. Non tutti ci sono riusciti. Credo che questo risultato sia figlio di una determinata postura intellettuale».

Ovvero?

«Combattiamo costantemente contro la sindrome del villaggio di Asterix».

Ci sono ancora i Romani e i Galli?

«Io mi dichiaro sempre veneto d’adozione nonostante sia nato a Roma. Ma le dico: nella scuola, nell’università, nella cultura, noi tendiamo troppo spesso a sentirci come gli abitanti del villaggio di Asterix. Abbiamo una classe imprenditoriale fantastica, che miete successi in tutto il mondo, ma anche la tendenza a chiuderci in una visione localistica. E questo non va bene. I Galli vincono solo nei fumetti».

Che significa? Che c’è bisogno di maggiori investimenti?

«Sì. E va riconosciuto che, senza l’attività del Presidente Zaia, noi oggi saremmo ancora a occuparci di teatri costretti a comprare altrove la propria programmazione. Homo sine pecunia imago mortis».

Ero rimasto al tremontiano detto «con la cultura non si mangia». È una storia complessa quella tra il centrodestra e l’organizzazione culturale.

«In Veneto, per quanto riguarda il teatro, no. Avere fatto scelte così ambiziose verso questo teatro è stato un momento di alta politica culturale».

Come va nella relazione col governo nazionale?

«Rilevo che, a differenza che nel passato. Abbiamo un sottosegretario, Gianmarco Mazzi, competente e, soprattutto, presente».

Cos’è la rete internazionale dei teatri dell’Alto Adriatico a cui lei sta lavorando?

«Un tentativo che stiamo provando a fare con i teatri di Vicenza, Verona, Padova, Venezia, Treviso, e poi di Udine, Rijeka, Pola. Speriamo di allargare alla Slovenia. L’ambizione è di provare a diventare una macroarea culturale di interesse, con un’organizzazione vera e propria, capace di interloquire con le strutture burocratiche dell’Europa per raccontare un’identità e per provare a promuoversi, per attrarre investimenti. Non bisogna mai sedersi sugli allori».

Tra le città menzionate ne manca una.

«Sì. Manca Trieste. Il presidente dello Stabile triestino, Granbassi, l’ultima volta non poteva. Forse la prossima troverà tempo per stare con noi. Noi ci teniamo».

Vogliamo declinare meglio l’idea di una comunità culturale nordestina?

«Pur nel contesto di tutte le differenze che vanno rispettate, io penso che quest’area esista. Ma che non sappia, e qualche volta non voglia, incontrarsi. A Venezia sto aprendo il “Cantiere Goldoni”. Mi sto muovendo con gli scrittori – tra gli altri Molesini – con gli editori - De Michelis- speriamo con le università oltre che con la gente di Teatro. Rifletto sul fatto che la richiesta di vedere sul palcoscenico la vita di questa gente meravigliosa che abita da queste parti è altissima. Vorrei ci fosse anche la vicentina Mara Carollo, appena pubblicata da Rizzoli, che ha scritto un grande libro non entrato al Campiello. Il nordest è pieno di energie culturali. Tocca a noi promuoverle e dare loro risalto».

Non le piacciono i radical chic.

«Io sono molto rispettoso delle scelte e degli imprenditori che investono nel Premio. Ma sì, credo che la letteratura appartenga e vada pensata per il popolo e che certe scelte appaiano elitarie».

Un’ultima domanda: sente di essere riuscito a trasformare lo Stabile in un punto di riferimento della vita culturale nazionale?

«No. Non ancora. Il mio non è un intento generico. L’obiettivo è rendere lo Stabile una comunità in cui accogliere coloro che credono alla cultura come fattore determinante nella crescita del Paese». 

Riproduzione riservata © il Nord Est