Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 6 novembre
Ecco la Palma d’oro di Cannes: “Un semplice incidente” di Jafar Panahi. Il ritorno del gigantesco Daniel Day-Lewis diretto dal figlio Ronan in “Anemone”. Dopo Duse, un film su un’altra “Divina”: Sarah Bernhardt. Il cinema italiano sprofonda con “Una famiglia sottosopra”

In “Un semplice incidente” di Jafar Panahi (che, conquistando la Palma d’oro con questo film, è uno dei pochissimi registi ad aver vinto tutti i festival più prestigiosi del mondo) la drammatica denuncia dell’oscurantismo del regime va di pari passo con un tono ironico da commedia e soprattutto con una riflessione sulla casualità dei destini umani.
Daniel Day-Lewis torna sul grande schermo nell’opera prima del figlio Ronan: in “Anemone” è un uomo che si è isolato dal mondo, costretto a fare i conti con il proprio passato. La sua prova è gigantesca ma il film è faticoso, sin troppo impeccabile nella messa in scena.
È il più classico dei film biografici quello che il regista Guillaume Nicloux dedica alla figura di Henriette Rosine Bernard, in arte Sarah Bernhardt: la più grande e celebre attrice di Francia tra ‘800 e ‘900, dalla vita turbolenta e sessualmente disinibita. Ma si poteva ambire a una rievocazione meno tradizionale.
“Una famiglia sottosopra” di Alessandro Genovesi sestuplica l’effetto «scambio di corpi»: il film è una miserella variazione sul tema del mettersi, letteralmente, nei panni degli altri. Argentero e Lodovini al minimo sindacale. Super spot per Gardaland all’inizio e alla fine del film.
Un semplice incidente
Regia: Jafar Panahi
Cast: Vahid Mobasseri, Mariam Afshari, Ebrahim Azizi
Durata: 101’
Il ritorno alla libertà dell’iraniano Jafar Panahi è stato premiato con la Palma d’oro, fatto che ha permesso a
Panahi di aggiudicarsi il grande Slam dei quattro maggiori festival del mondo (Cannes, Venezia, Berlino, Locarno: solo Michelangelo Antonioni c’era riuscito).
“Un semplice incidente” è un film in cui la drammatica denuncia dell’oscurantismo del regime va di pari passo con un tono ironico da commedia e soprattutto una riflessione sulla casualità dei destini umani, in un gioco di coincidenze che fanno di Panahi una sorta di Roman Polanski in salsa persiana, che in “La morte e la fanciulla”, tratto Ariel Dorfman, partiva dallo stesso espediente.
È notte, Rashid, viaggia in auto con la moglie incinta e la vivace figlia, quando investe un cane. L’auto si danneggia, costringendo Rashid a fermarsi in un’officina, dove il meccanico Vahid riconosce il rumore della protesi e crede di aver trovato il suo torturatore politico, “Gamba di Legno”, un efferato aguzzino che gli ha impresso torture indicibili.
Desideroso di vendetta, Vahid rapisce Rashid e lo porta nel deserto, intenzionato a seppellirlo vivo. Ma, morso dai dubbi, non avendo mai visto il suo torturatore, che identificava solo dal suono della protesi, Rashid chiede conforto ad amici ed ex compagni di cella: è lui o non è lui?
Una risata vi seppellirà, dicevano gli studenti nel ‘68. E lo sberleffo al regime qui ha i toni dell’apologo morale: le vittime sono meno vendicative e crudeli dei loro aguzzini.
È gente comune – una fotografa, la giovane sposa che sta ritraendo per la cerimonia del giorno dopo, un operaio invasato, ma alla fine altrettanto dubbioso – che non ha le certezze che il loro carceriere aveva mentre li interrogava, violentava, torturava.
Ognuno di loro vi riconosce qualcosa, ma anche in Iran il totale non è la somma dei particolari. Con una regia intensa, ravvicinata, quasi a far uscire dallo schermo le pulsioni, persino il sudore dei protagonisti, Jafar Panahi mostra che il potere vampirizza tutti e che soprattutto non è mai domo, invitando a resistere sino in fondo. (Michele Gottardi)
Voto: 7,5
***
Anemone
Regia: Ronan Day-Lewis
Cast: Daniel Day-Lewis, Sean Bean, Samantha Morton, Samuel Bottomley
Durata: 121’

Ray (Daniel Day-Lewis) vive isolato dal mondo in un bosco nel nord dell’Inghilterra. Quando il fratello Jem (Sean Bean) si presenta da lui per richiamarlo ai doveri paterni in un momento di emergenza, dal passato riemergono dolori e rimpianti, incubi e sensi di colpa legati ad una infanzia brutalizzata e a quanto vissuto dai due fratelli negli anni dei “Troubles” (il conflitto nord-irlandese) quando prestavano servizio per la corona britannica.
“Anemone”, esordio alla regia di Ronan Day-Lewis, è un’opera dolente e ambiziosa che ha il grande merito di aver riportato sulla scena il padre Daniel, uno dei più grandi attori della sua generazione che anche in questo film (in particolare con due monologhi di una intensità frastornante) si carica sulle spalle il peso di una narrazione ermetica e spigolosa.
Ma proprio per sopperire a questa drammaturgia faticosa (intrisa di tanti e troppi temi: l’irredentismo, la religione, la violenza della Chiesa, la paternità, la colpa, la punizione e la redenzione), Ronan Day-Lewis usa (e abusa) del proprio talento pittorico (i disegni all’inizio del film sono suoi) per comporre inquadrature perfette che tendono a specchiarsi nella loro stessa staticità o, soprattutto nella seconda parte, ad aprirsi ad inserti onirici che non sempre trovano una armonizzazione con la grammatura del film.
Non mancano le sequenze affascinanti, in particolare quando i due fratelli ritrovano una sorta di legame infantile (al mare o in quel ballo scomposto nella baita che, improvvisamente, non ha più pareti e sembra accendere, per pochi secondi, il cuore nero di Ray), ma la sensazione è che il racconto sia solo un pretesto per sfoggiare tutto ciò che il regista vuole dimostrare di saper fare.
E, in effetti, le sue capacità non sono in dubbio ma l’accumulo di carrellate (avanti, indietro, dal basso all’alto), di un commento musicale spesso invadente, di una ricerca ossessiva per l’immagine impeccabile e mai sporca (i bagliori dietro le dune nella notte, una passeggiata molto “sorrentiniana” attraverso un parco giochi deserto) e di un simbolismo esasperato (il fiore del titolo che rimanda al concetto di fragilità), finisce per schiacciare il film.
Il cui finale, anche sin troppo conciliante, ricorda molto la pioggia di rane di “Magnolia”. È, comunque, meraviglioso ritrovare gli occhi neri tremolanti di Daniel Day-Lewis, quel baffo da “petroliere” e da “macellaio” e, in generale, una infinita gamma di registri e di corde che solo un gigante come lui sa toccare. (Marco Contino)
Voto: 5
***
La Divina di Francia – Sarah Bernhardt
Regia: Guillaume Nicloux
Cast: Sandrine Kiberlain, Laurent Lafitte, Amira Casar, Pauline Etienne, Mathilde Ollivier
Durata: 98’

Un biopic nel vero senso della parola, il più classico dei film biografici, quello che il regista Guillaume Nicloux dedica alla figura di Henriette Rosine Bernard, in arte Sarah Bernhardt, la più grande e celebre attrice di Francia tra Otto e Novecento, dalla vita turbolenta, sessualmente disinibita, con amanti bisessuali, e politicamente impegnata, pare sia stata lei a convincere Emile Zola a impegnarsi nell’Affare Dreyfuss, ma un biopic anche molto prevedibile e senza particolari sussulti narrativi.
Il film ha il pregio di ricostruire la vita privata e artistica della Divina, poco conosciuta al di là dei suoi exploit, compreso quello con Gabriele D’Annunzio prima della scelta della Duse, ma lo fa in modo molto tradizionale: la vita imprevedibile della Divina poteva ambire a una rievocazione diversa da questa, molto ricca dal punto di vista formale e dell’interpretazione di Sandrine Kiberlain, ma narrativamente scontata.
C’è tutto quello che ci si aspetta da un film su di lei: teatro, rivalità, amanti, cattiverie, scene madri private e pubblici scandali, impegno sociale e relazioni individuali tenute in scacco da un carattere spesso arrogante e volubile.
La vicenda parte dal 1915, con un lungo flashback sugli ultimi vent’anni della sua vita. Colpita da una tubercolosi ossea al ginocchio, la Bernhardt è costretta a farsi amputare la gamba destra. Al termine dell’operazione Sarah riceve le visite successive dei suoi cari, tra cui il giovane cineasta Sacha Guitry, che cerca di svelare il segreto della relazione tra Sarah e suo padre Lucien.
È l’inizio di una lunga confessione su ciò che, vent’anni prima, aveva fatto precipitare il destino della Divina, che pure riprese a recitare seduta e fece anche qualche ruolo nel cinema muto. Un film che, anche nelle sue incertezze, ricorda da vicino il “Duse” di Pietro Marcello. (Michele Gottardi)
Voto: 5
***
Una famiglia sottosopra
Regia: Alessandro Genovesi
Cast: Luca Argentero, Valentina Lodovini, Licia Maglietta
Durata: 85’

Commedia di scambi corporali trita e ritrita, emblema di un cinema italiano senza idee che anche quando copia, lo fa malissimo. In una “Famiglia sottosopra” Alessandro Genovesi sestuplica l’effetto transfert: papà, mamma, i tre figli e la nonna si ritrovano, per magia, in un corpo diverso dal proprio e, ovviamente, cominciano i problemi.
Ma mettersi nei panni dell’altro sarà di insegnamento per tutti e aiuterà la famiglia a risolvere la crisi in cui era piombata. Miserella variazione su un tema cavalcato al cinema mille volte, per giunta complicata dell’effetto moltiplicativo da “fiera dell’est”.
Il papà è, in realtà, la figlia adolescente che, in realtà, è la nonna che, in realtà, è l’altro figlio che, in realtà, è la bambina più piccola che, in realtà, è la mamma che, in realtà, è il papà.
Un rompicapo da scrivere e pure da guardare (se non altro è apprezzabile l’aiutino al pubblico dato da post-it e magliette che, ogni tanto, ricordano allo spettatore chi sta ne corpo di chi). Argentero e Lodovini non ci credono mai (e come dare loro torto?).
“Una famiglia sottosopra” stonerebbe pure in tv al pomeriggio.
Per Gardaland (dove sono ambientati l’inizio e la fine della storia) è un super spot ma, almeno, si deve proprio al personaggio del direttore del parco di divertimenti l’unica risatina di tutto il film (con finale monco). (Marco Contino)
Voto: 4
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