Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 25 settembre

Il ritorno di uno dei più grandi narratori del cinema contemporaneo. Paul Thomas Anderson dirige Leonardo Di Caprio in “Una battaglia dopo l’altra”. Talento puro: è Francesco Sossai che, dopo l’anteprima a Cannes, porta in sala “Le città di pianura”, road movie alcolico sulla terra veneta. Il Leone d’oro “morale” della Mostra del Cinema di Venezia - La voce di Hind Rajab – vi sconvolgerà

Michele Gottardi e Marco Contino
Il film "Una battaglia dopo l'altra"
Il film "Una battaglia dopo l'altra"

Rivoluzioni sotterranee e cripto-reazionari, megalopoli industriali e deserti di confine. “Una battaglia dopo l’altra” di Paul Thomas Anderson (che, dopo “Vizio di forma”, ritrova ancora Thomas Pynchon come fonte di ispirazione) racconta l’America di ieri e di oggi come non si vedeva da tempo. 

Il film che tutti dovrebbero vedere. “La voce di Hind Rajab”, già osannato alla Mostra del Cinema (24 minuti di applausi: mai successo …), fonde le sconvolgenti e autentiche registrazioni audio di una bambina palestinese in trappola e la finzione di un film “da camera”. La sua voce urla tutta l’impotenza di questa umanità. Lacerante.

“Le città di pianura” è il nuovo film di Francesco Sossai che racconta il Veneto attraverso uno sguardo originale, ruvido e intimo, chiuso nei primissimi piani di due “disgraziati” e poi aperto sulle strade che li portano dalla Valbelluna a Venezia, da Treviso ai Colli Euganei, stazioni di una via crucis profana e alcolica con due “ladroni” e, forse, una speranza di futuro … Genio. 

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Una battaglia dopo l’altra 

Regia: Paul Thomas Anderson

Cast: Leonardo Di Caprio, Sean Penn, Benicio Del Toro, Regina Hall, Teyana Taylor, Chase Infiniti

Durata: 162’

 

Una descrizione degli Stati Uniti di ieri e di oggi come non si vedeva da tempo, tratta dal romanzo leggendario di un autore non meno mitizzato, “Vineland” di Thomas Pynchon: “Una battaglia dopo l’altra” di Paul Thomas Anderson (“Il petroliere”, “The Master”, “Vizio di forma”) visualizza sullo schermo le incoerenze di un paese mille volte contraddittorio, tra rivoluzioni sotterranee e cripto-reazionari, megalopoli industriali e deserti di confine. C’è un’America che resiste e che lotta, tra legalità e illegalità, un underground di cunicoli dove dar riparo a latinos, disoccupati e irregolari, ma anche un paese dove lobby di suprematisti bianchi cacciano letteralmente meticci e bianchi contaminati, idealmente e fisicamente.

Forse l’immagine del Paese che Anderson descrive è racchiusa nella bellissima sequenza dei molteplici inseguimenti nel deserto in cui la strada piena di dossi, tra salite e discese vorticose, esprime bene l’imprevedibilità della vita americana, una strada dritta piena di imprevisti, come nel vecchio West.

Agli inizi del Duemila, un gruppo rivoluzionario, noto come French 75, compie attentati e rapine, finalizzati a liberare immigrati illegali e minoranze etniche. Pian piano vengono presi tutti, meno Bob (Leonardo DiCaprio), lasciato con una figlia piccola dalla sensuale moglie Perfidia Beverly Hills (Teyana Taylor), di cui si sono perse le tracce dopo l'incontro col diabolico colonnello Steve Lockjaw (Sean Penn).

Sedici anni dopo ritroviamo Bob nascosto in una casa di campagna, sorvegliato con discrezione dai reduci, assieme alla figlia Willa. Lockjaw però vuole ritrovarlo e scatena una caccia all’uomo cui Anderson e Di Caprio aggiungono un tocco di ironia sul modello del Drugo, il mitico Jeff Bridges de “Il Grande Lebowski”, per un film di grande ritmo narrativo, con registri che cambiano in continuazione, alternando privato e pubblico, ricco di simbologie e di grande mestiere, appena indebolito da un finale dilatato. (Michele Gottardi)

Voto: 8,5

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La voce di Hind Rajab 

Regia: Kaouther Ben Hania

Cast: Saja al-Kilani, Clara Khuri, Muʿtazz Milhis, ʿAmir Hulayhil

Durata: 89’

Il film "La voce di Hind Rajab"
Il film "La voce di Hind Rajab"

 

Solo qualche settimana fa, alla Mostra del Cinema di Venezia, il pubblico della Sala Grande tributava al film della tunisina Kaouther Ben Hania – La voce di Hind Rajab – una standing ovation infinita con 24 minuti di applausi (mai visto e mai sentito …). È passato un po’ di tempo ma quella esperienza resta ancora sconvolgente. Nelle orecchie, negli occhi e nell’anima. Da Venezia il film è tornato a casa con il Gran Premio della Giuria (è mancato il coraggio di conferirgli il riconoscimento più importante, il Leone d’oro, ma questa è un’altra storia che con il cinema ha poco a che fare) mentre a Gaza l’orrore, se possibile, è diventato ancora più indicibile.

Per questo, l’uscita in sala di “La voce di Hind Rajab” (grazie ad I Wonder Pictures del padovano Andrea Romeo) è ancora più necessaria.

Di cosa parli il film, ormai, è noto.

È la storia vera (accaduta nel gennaio 2024) di una bambina di quasi sei anni, intrappolata in un’automobile nella Striscia sotto i colpi dell’esercito israeliano.

Hind (questo il suo nome) riesce in qualche modo a mettersi in contatto, attraverso il cellulare di uno dei familiari (nel frattempo uccisi dentro l’abitacolo), con i soccorritori della Mezzaluna Rossa che cercheranno disperatamente di salvare la bambina, tra autorizzazioni, corridoi sicuri, e una burocrazia ostruzionista, nonostante l’ambulanza disti solo 8 minuti dal mezzo in cui è intrappolata Hind.

Di cui sentiamo la voce autentica, la registrazione delle sue chiamate ai soccorritori. Il lamento straziante di una bambina che non capisce consa stia succedendo, che si chiede perché nessuno venga a prenderla. Terrorizzata. Sola. Circondata da corpi senza vita nello spazio angusto di un’automobile. Si può immaginare una situazione più sconcertante? No, non si può. Eppure, è accaduto.

Kaouther Ben Hania prende questo materiale pericolosissimo, ad altissimo tasso ricattatorio (l’operazione poteva persino diventare “immorale”), e lo innesta in un film di finzione, ergendosi a rispettosa custode di una memoria che doveva essere raccontata.

La messa in scena quasi teatrale non tradisce mai l’autenticità di questo materiale ma ne amplifica l’impatto emotivo (soprattutto conoscendo la sorte dei protagonisti).

Ne scaturisce un lacerante dispositivo ibrido che crea una sorta di corto circuito tra ciò che è autentico (non solo la “voce” ma anche alcune riprese con i telefonini dei veri soccorritori e le sequenze finali) e ciò che non lo è. Una sovrapposizione potentissima e devastante, forse l’unico modo possibile di raccontare una tragedia così personale e, insieme, universale: atto di accusa contro l’impotenza dei singoli, dei governi, dell’umanità tutta. (Marco Contino)

Voto: 8

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  Le città di pianura

  Regia: Francesco Sossai

Cast: Sergio Romano, Pierpaolo Capovilla, Filippo Scotti, Andrea Pennacchi

Durata: 100’

Il film "Le città di pianura"
Il film "Le città di pianura"

“Le città di pianura” di Francesco Sossai è un film su una terra profondamente trasformata: quello spazio di pianura che si estende dalle Prealpi alla laguna e che - come un capriccio pittorico della scuola del Veronese - quasi scompare, come se la distanza tra le montagne e il mare si annullasse. Sossai sceglie di raccontare questo paesaggio, oggi distrutto, in cui convivono dimore antiche e schiere di villette tutte uguali, costellato di case e di osterie abbandonate - dove un tempo si mangiavano lumache e polenta - e di vestigia industriali abbattute dalla crisi economica.

Una campagna che non è più campagna ma che non è ancora diventata città. È un Veneto quasi funereo: non è un caso che Sossai abbia scelto, tra le tante ambientazioni del film, anche la Tomba Brion: cemento armato che anela al cielo.

Il Veneto è stato (è) così, con una forza propulsiva ora contraria: un ideale economico piombato, rovinosamente, a terra. Qui si muovono i protagonisti del film: due anime “alcoliche”, Carlobianchi (Sergio Romano) e Doriano (Pierpaolo Capovilla), disarcionate dalla vita, che vogliono bere l’ultima “ombra” prima di riabbracciare il passato glorioso incarnato dal mitologico Genio (Andrea Pennacchi da adulto) che sta per atterrare in Italia, dopo una lunga latitanza per aver frodato l’azienda di occhiali dove i tre hanno lavorato per anni.

Genio ha pagato per tutti ed è evaporato in Argentina; Carlobianchi e Doriano (che sembrano arrivare da un film di Mazzacurati) si sono salvati dalla giustizia ma non dalla vita. Sui loro volti sfatti si legge in filigrana il fallimento, il tempo perduto scandito da un Rolex d’oro.

La loro Jaguar rabberciata (simbolo di quel benessere truffaldino sopravvissuto al tracollo) attraversa la pianura in una notte che sembra lunghissima anche quando si fa giorno, come se il domani non arrivasse mai. I loro sogni sono svaniti ben prima dell’alba e allora, la fortuita conoscenza, tra i bacari di Venezia, di un timido studente di architettura, Giulio (Filippo Scotti che, in una spericolata sovrapposizione densa di significato, interpreta anche Genio da giovane), si fa nostalgia e desiderio.

Quasi lo circuiscono: gli fanno da mentori e, allo stesso tempo, vorrebbero possederlo, assaggiare la sua gioventù, insegnargli a cogliere le occasioni (perché non c’è mai un’altra volta).

Forse Giulio è la proiezione dei loro sogni infranti, è la realtà che si può ancora plasmare. “Le città di pianura” è un viaggio triste senza essere tragico; amaro ma con un finale dolce come il gelato allo yogurt che Carlobianchi assaggia. È un film sulla vita in cui le parole (forse) importanti si perdono, coperte da un rumore o lavate via dall’alcol e dai caffè corretti-grappa. Meno radicale e disossato del suo folgorante esordio cinematografico (Altri cannibali), il nuovo film di Sossai conferma il talento puro del regista feltrino, l’originalità del suo sguardo, ruvido e intimo, chiuso nei primissimi piani dei protagonisti e poi aperto sulle strade che li portano dalla Valbelluna a Venezia, da Treviso ai Colli Euganei, stazioni di una via crucis profana con due “ladroni” rimasti sulla croce, mentre a Giulio, forse, è dato (ri)sorgere.

Sossai aggiorna l’idea di viaggio in Italia di Piovene, Ceronetti e Celati, sulle orme del lavoro fotografico di Guido Guidi, per mostrare come la terra che racconta sia cambiata, per posare l’occhio sulle superfici. C’è un’aria di solitudine e di desolazione urbana. Carlobianchi e Doriano sono due disgraziati, eppure c’è qualcosa di seducente nel loro girovagare alcolico.

E, alla fine, anche in quel costrutto della storia chiamato “Nordest”, Sossai trova qualcosa di dolce nell’amarezza del disfacimento. (Marco Contino)

Voto: 7,5

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