Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 15 maggio
Umberto Contarello si mette dietro e davanti la macchina da presa con “L’infinito”, scritto insieme a Paolo Sorrentino (che produce). Alissa Jung dirige il marito Luca Marinelli in “Paternal Leave”. In sala anche “Sex”, l’ultimo capitolo (ma, in realtà, il primo) della trilogia firmata dal norvegese Dag Johan Haugerud, dedicata ai rapporti umani

“L’infinito” di Umberto Contarello galleggia tra plausibilità ed implausibilità alla ricerca di una semplicità da scovare dentro aforismi, manie, narcisismi e autoironia.
Luca Marinelli è un padre irrisolto e vulnerabile nel “coming of age” diretto dalla moglie Alissa Jung, “Paternal Leave”, nel suo esordio alla regia, già presentato alla Berlinale di quest’anno.
“Sex” è il primo dei tre capitoli (ma ultimo a uscire in sala) della trilogia diretta da Dag Johan Haugerud che affronta diverse sfaccettature dei rapporti amorosi e sessuali del mondo contemporaneo, indagando forme di intimità oltre i limiti delle relazioni.
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L’infinito
Regia: Umberto Contarello
Cast: Umberto Contarello, Bruno Cariello, Carolina Sala, Eric Claire, Margherira Rebeggiani
Durata: 91’
Si intitola “L’infinito” ed è il (quasi) esordio alla regia (prima c’è stato il documentario “Parole. Operetta per voce e piano”) dello sceneggiatore padovano Umberto Contarello che lo ha scritto insieme a Paolo Sorrentino (anche produttore del film). È la storia di uno sceneggiatore aggrappato ai successi del passato (ha vinto anche un Oscar) che si trova a fare i conti con un presente nostalgico e solitario.
E, soprattutto, con l’“assenza” di una figlia con la quale vorrebbe ricucire il rapporto. Inutile affannarsi sulla natura autobiografica o meno del film. Certo, il protagonista si chiama Umberto, scrive storie per il cinema, abita a Roma e ha vinto una statuetta (come è stato, in effetti, per “La grande bellezza”) … insomma, per chi conosce Contarello, la risposta potrebbe sembrare ovvia. Ma non è questo il punto.
“L’infinito”, in un cinema ossessionano dai “momenti decisivi” (i famigerati “turning point”) e dalla successione di sequenze che devono servire l’una all’altra, si prende la libertà di divagare (o, per meglio dire, divaga in libertà), galleggiando tra plausibilità ed implausibilità, alla maniera letteraria di Emmanuel Carrère.
Contarello e Sorrentino mettono insieme frammenti di vita in senso più musicale che narrativo (e, del resto, a Contarello non piace parlare di trama, parola che rimanda al concetto di ordire, ingannare). La sua è più una ricerca di assonanze, di flussi ai quali, a volte, anche lo spettatore può abbandonarsi. Come al canto di una giovane suora armena che pulisce i vetri delle finestre di fronte all’appartamento di Umberto o come quando il passato porta il protagonista a “tornare a casa”, in quella terra che ha dato i natali a Parise, di cui Contarello elabora, a suo modo, la semplicità a cui, infine, vorrebbe tendere. Certo, non è sempre facile cogliere questa ingenuità nel cinema (scritto) e diretto da Contarello.
Per raggiungere il cuore della storia - che, in fondo, è quella di un uomo sospeso tra l’essere un sopravvissuto a un terremoto e un pugile suonato, mentre la vita continua ad agglutinare, come in una matassa, i fili che ha steso come panni al sole, alcuni dei quali sono divenuti inestricabili - bisogna essere disposti a farsi largo tra i “contarellismi” che custodiscono (e quasi proteggono) quel cuore.
Sono i narcisismi del suo autore, le sue manie (come quella del maggiordomo per i mandarini), i sillogismi che fa pronunciare a un agente a cui il protagonista si rivolge per rilanciare la sua carriera (affiancando una giovane sceneggiatrice - Carolina Sala – che, al contrario di lui, adora le trame e la linearità consequenziale), le sue estemporanee e malinconiche avventure amorose.
Alle volte la sensazione è proprio quella del titolo: un flusso infinito che non conduce a qualcosa ma, piuttosto, da cui si è condotti (se si è disposti a farlo). L’autoironia di Contarello stempera, però, la fatica di un viaggio potenzialmente interminabile, a cui non tutti possono prendere parte. (Marco Contino)
Voto: 6,5
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Sex
Regia: Dag Johan Haugerud,
Cast: Thorbjørn Harr, Jan Gunnar Røise, Siri Forberg, Birgitte Larsen, Nasrin Khusrawi
Durata: 118’

Esce per ultimo, in ordine di tempo, “Sex”, che in realtà dovrebbe essere il primo capitolo della trilogia del norvegese Dag Johan Haugerud, di cui abbiamo già visto “Love”, presentato a Venezia 2024, e “Dreams”, che invece ha vinto l’Orso d’oro a Berlino. Un ordine di visione solo consigliato dal regista, ma che invece ha una sua ratio.
Infatti, sapendo che “Sex” è il primo capitolo della trilogia, si coglie meglio l’evoluzione del pensiero e delle scelte etico-estetiche di Haugerud, che crescono e si snodano, nel ritmo e nelle storie dei suoi protagonisti in modo dinamico, mentre in “Sex”, il film appare ancora troppo verboso, a livello di autocoscienza di gruppo o di saggio sociologico.
Siamo sempre a Oslo, inquadrata dalle vetrate panoramiche delle abitazioni o dall’alto dei tetti dove lavorano i due protagonisti principali, due spazzacamini, colleghi e amici, che una mattina dopo la solita nuotata, si confessano segreti che scardinano la loro vita personale e familiare.
Il primo, che si professa cristiano, ha sognato di essere desiderato da David Bowie, “come una donna” e da quel momento nella sua voce c’è una nota di tensione che compromette la sua presenza nel coro a cui partecipa e che pian piano diventa un tarlo sempre più invadente e disturbante. Il secondo invece, padre e marito esemplare, confessa di aver ceduto, proprio il giorno prima, alla richiesta inaspettata di un cliente e di aver fatto sesso con lui, pur senza essere omosessuale e senza la volontà di tradire la moglie, che invece rimane sconvolta dalla rivelazione, così come l’amico.
Tutto il film è scandito dalle confessioni, dapprima tra i due spazzacamini (evidentemente al nord esistono ancora, e non solo in “Mary Poppins”), poi con le loro compagne, mogli e amici, mentre la macchina da presa li inquadra a fuoco fisso, da ferma, o con Oslo sullo sfondo, come nel lungo piano sequenza di quasi un quarto d’ora, minuti in cui i protagonisti si raccontano, davanti a una vetrata sul traffico cittadino.
Ma l’impianto dinamico, anche autoironico, sentimentale e drammatico a un tempo, degli altri due episodi qui appare distante e molto poco coinvolgente per lo spettatore. Resta l’assunto di fondo del regista, ovvero che la sessualità, o meglio la scoperta di una sessualità negata, possono incidere a fondo sull’esistenza degli individui e dei loro nuclei familiari. (Michele Gottardi)
Voto: 5.5
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Paternal Leave
Regia: Alisssa Jung
Cast: Luca Marinelli, Juli Grabenhenrich, Arturo Gabbriellini
Durata: 113’

Un altro film sulla paternità negata e recuperata dopo “In viaggio con mio figlio” e “Ritrovarsi a Tokyo”, usciti di recente, conferma che il tema, e il problema, è condiviso su larga scala, geografica ed emotiva, anche al cinema. Questa volta è l’Italia a fare da sfondo della vicenda di “Paternal Leave” della regista tedesca Alissa Jung e moglie di Marinelli, che lasciati panni del duce assume quelli di Paolo, padre inaffidabile che si trova davanti Leo, adolescente tedesca, figlia di una relazione estemporanea di 15 anni addietro con una turista tedesca, sulla riviera romagnola.
Dopo aver scoperto per caso dalla madre l’identità del padre biologico italiano, Leo decide di partire per incontrarlo. Cresciuta senza una figura paterna, la ragazza decide di trovare risposte a un fiume di domande che la rivelazione della madre le ha fatto scaturire. Nel frattempo Paolo ha avuto un’altra bambina, Emilia, nata da un’altra storia effimera, anche se qui il suo ruolo pare essere maggiormente impegnato.
Alissa Jung descrive un film di sentimenti irrisolti facendosi accompagnare dagli spazi deserti del mare d’inverno e della spiaggia di Marina di Romea tra fenicotteri e ruspe, locali disastrati dalle mareggiate e personaggi rovinati dalla propria insipienza esistenziale.
Pur tra qualche luogo comune e qualche eccesso di politically correct (come la storia di Edoardo, il nuovo amico con cui Leo si confida, un giovane il cui padre cerca di negare con violenza la propria identità gay), l’esordio di Alissa Jung (attrice in “Maria di Nazaret” di Giacomo Campiotti, 2012) è in realtà genuino e delicato nella descrizione drammatica di una paternità che Paolo continua a negare all’esterno, anche se fatica ormai a farlo dentro di sé. L’errore ripetuto in modo pervicace e diabolico alla fine porta solo nuovi sbagli e altri problemi, e il congedo parentale del titolo, che dura da 15 anni, ormai volge al termine.
Quello che emerge nel film, filtrato dagli occhi di una donna regista, non è tanto o non solo l’irresolutezza alla paternità di un ragazzo di, allora, 21 anni, quanto l’incapacità, forse mediterranea, forse ontologicamente maschile, a far fronte alle disavventure dell’esistenza in modo caparbio e risoluto. Forse una visione un po’ di parte, ma sicuramente reale in molte situazioni, vicine e lontane dal nostro orticello. (Michele Gottardi)
Voto: 6.5
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