Quegli anni veneziani di Gioachino Rossini con debutto al San Moisè

Appena diciottenne mise in scena “La cambiale di matrimonio”. L’opera è stata ora riscoperta dal Rof

Alberto MattioliAlberto Mattioli
Gioacchino Rossini
Gioacchino Rossini

Gioachino Rossini era venuto al mondo a Pesaro da un papà di Lugo. Da qui infinite diatribe localistiche fra opposti ammiratori, cui lui tagliava corto definendosi “cigno di Pesaro e cignale di Lugo”. Ma, artisticamente, Rossini nasce veneziano.

Il Rossini Opera Festival, Rof per noi rossiniani talebani, sta riproponendo la prima opera che gli misero in scena, “La cambiale di matrimonio”, che debuttò appunto a Venezia, al teatro san Moisè, il 3 novembe 1810: l’autore aveva diciotto anni.

Venezia non era più la capitale di uno Stato, ma era ancora quella del teatro: abbastanza facile che un giovin principiante iniziasse la carriera proprio lì, e proprio al San Moisè specializzato in quelle operine che all’epoca erano dette “farse”, però senza riferimenti specifici al soggetto, che poteva essere perfino semiserio. Semmai, alle dimensioni: atto unico, pochi personaggi, poca orchestra, niente coro.

Se andiamo a vedere le statistiche, dei 39 titoli del catalogo rossiniano Venezia è la città che ne ha tenuti a battesimo di più, dieci in totale, anche se a parimerito con Napoli.

Seguono Roma, sei, Milano e Parigi, cinque ciascuna e poi, episodiche con uno, Bologna, Ferrara e Lisbona. In laguna, Rossini scrisse innanzitutto per il San Moisè, cinque farse: dopo la “Cambiale”, “L’inganno felice”, “La scala di seta” e “L’occasione fa il ladro” nel ’12, “Il signor Bruschino” nel ’13.

Inutile mettersi a cercare la sala: il San Moisè fu smantellato negli anni Trenta dell’Ottocento, riattato nel 1871 come teatro della Minerva per gli spettacoli di marionette, nel 1906 trasformato nel primo cinema veneziano e poi demolito.

Del passaggio di Rossini resta solo una lapide, in campo (appunto) San Moisè, speculare alla Fenice ma dalla parte opposta di calla larga XXII marzo. Era un teatrino popolare, ma con i suoi quarti di nobiltà: tre prime assolute di Vivaldi, una di Albinoni, due su libretti di Goldoni. Nel 1786 ci passò pure Goethe, cui l’opera non piacque, “non rimasi molto soddisfatto”, ma le cantanti sì: “due belle figure”.

Rossini scrisse anche due opere per il San Benedetto, aperto nel 1755 e demolito nel 1951 per costruirci il solito malefico cinematografo.

Qui nel 1813 fece rappresentare “L’italiana in Algeri”, altro titolo “roffiano” di quest’estate e capolavoro riconosciuto; nel ’19, fu la volta di “Eduardo e Cristina”, operona seria che però è in realtà un titolo-Frankenstein messo insieme con pezzi di altre opere. Il San Benedetto era un teatro importante che cambiava di continuo nome: Gallo nel 1810 per megalomania del nuovo proprietario, appunto Giovanni Gallo, Rossini dopo la morte di Gioachino, nel ‘68.

“Un teatro secondario” secondo Hippolyte Taine in visita a Venezia nel 1864, tempi non ancora di overtourism e anzi nemmeno di turisti, semmai di viaggiatori. Però proprio lì, dieci anni prima, era risorta “La traviata” fischiatissima alla prima alla Fenice.

Già, la Fenice. Rossini ci fece rappresentare tre opere, tutte serie come si conveniva a un teatro così aristocratico: “Tancredi”, il gioiello giovanile, nel ’13; “Sigismondo” l’anno successivo e il capolavorissimo “Semiramide” nel ’23, quando andò a Venezia per l’ultima volta.

Dieci anni dopo Tancredi, stesso teatro, stesso librettista, Gaetano Rossi, e stessa fonte, Voltaire: la quadratura del cerchio. Venezia non aveva ancora l’immagine tenebrosa inventata dai romantici né quella mortifera cara ai decadenti. Sia pure con meno spensieratezza che nel Settecento, restava una città divertente, la Mecca del piacere, la Las Vegas dell’epoca.

E Rossini non era ancora l’uomo depresso e malato che diventò poi, nascondendolo a contemporanei e posteri con tale eroica caparbietà che per molti resiste ancora la maschera di allegro bon vivant che si costruì. Ma nel periodo veneziano aveva vent’anni, era popolare e idolatrato come una rockstar, piaceva alle donne e le donne gli piacevano: dev’essersi divertito moltissimo.

Frequentava un circolo di gaudenti libertini piuttosto sboccati che si era battezzato “Corte dei Busoni” e si riuniva nel retrobottega del Caffè Florian, mentre il grande amico, ammiratore e compagno di bisbocce era un allegro “spezier”, un farmacista, Giuseppe Ancillo, che teneva bottega all’attuale numero 4586 di campo San Luca. Molti anni dopo, a Parigi, a un Rossini invecchiato e forse disilluso portarono l’autografo del suo Tancredi, l’opera piena di genio giovanile che fece delirare Stendhal e con lui tutta Italia.

Ci scrisse sopra questa frase: “A Venezia fu vergato, che tempi!!! Aujourd’hui c’est autre chose”. Nostalgie veneziane…

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