Dal campo al grande schermo: quando il tennis diventa metafora della vita
Da Match Point di Woody Allen a Il Maestro con Favino, passando per Challengers e King Richard: il cinema racconta i suoi game più umani

Il tennis come metafora della vita. Al cinema Woody Allen lo aveva già intuito nel 2005 con un film dal titolo emblematico: “Match Point”. Quella pallina che accarezza il nastro, rimane sospesa nell’aria e … cade al di qua o al di là della rete, fa tutta la differenza del mondo: vittoria e sconfitta sono questione di millimetri. Come quando il protagonista di “Match Point” (un giovane maestro di tennis) si sbarazza di una prova che lo incastrerebbe (un anello) e l’oggetto rimbalza sulla balaustra del Tamigi e alla fine piomba a terra invece che in acqua. Sarà la sua salvezza.
Vent’anni dopo anche il cinema italiano costruisce un film – “Il Maestro” di Andrea Di Stefano, da giovedì 13 novembre in sala – sulla figura di un istruttore di tennis e sfrutta ancora le imprevedibili dinamiche di questo sport per raccontare la vita e i suoi fallimenti, i doppi falli e i dritti in rete. In questa commedia agrodolce Pierfrancesco Favino è Raul Gatti, un ex tennista sull’orlo di una crisi di nervi che, dopo un ottavo al Foro Italico, è evaporato. All’epoca divorava la vita e il campo come faceva l’argentino Guillermo Villas con quella sua personalità brillante, la palla liftata, la spudoratezza di giocare anche dopo aver fatto l’alba in discoteca, profumando di “femmine e champagne”.
Ora che i riflettori si sono spenti e la terra rossa sulle scarpe è diventata solo polvere, Raul si ricicla maestro di tennis per il giovanissimo Felice, che il padre vorrebbe già campione. Ma il ragazzo è un pallettaro, vince a livello regionale perché sfinisce gli avversari da fondo campo. Mai un sussulto, mai una volèe a rete. Sono gli insegnamenti inculcati dal genitore/allenatore che, a un certo punto nel film, gli dice: «A noi ci piace il tennis dove si combatte su ogni palla, senza prendere rischi. Il tennis spensierato, quello all’attacco, il tennis serve&volley lo facciamo fare ai figli dei ricchi. Loro che fanno, i fanatici? E noi mazzate. Perché noi sappiamo bene che il miglior attacco è la difesa».
Il campo e le strategie di gioco diventano una proiezione del modo di vivere, metafora, appunto, della vita (anche Andre Agassi lo scrive nella sua mitologica autobiografia “Open”). C’è chi arretra e chi aggredisce, chi non rischia e chi, nel farlo, si fa male. Come è stato per Raul Gatti, mentore imperfetto, figura tragicomica che incarna l’elogio della sconfitta.
Anche Luca Guadagnino, nel 2024 con “Challengers”, serviva a 220 all’ora una storia d’amore, di amicizia, tradimenti e rimpianti camuffata da epopea sportiva, scegliendo proprio il tennis. Perché i suoi rituali diventano per Guadagnino l’occasione per mettere in scena un inedito sabba erotico, con i corpi scolpiti degli atleti, i torsi nudi al cambio di campo, sudori, umori e gemiti primitivi. Una partita e, quindi, una relazione – in questo caso a tre – raccontata con i ritmi del tennis mai restituito in modo così immersivo con soggettive arditissime (come quella della pallina frustata dalle racchette dei protagonisti) e uno smash finale come soluzione geniale per chiudere la partita, soprattutto quella fuori dal campo.
In “Una famiglia vincente – King Richard” del 2021, invece, il tennis è ossessione, occasione di riscatto, sudore che alimenta i sogni di un padre pronto a tutto perché le sue due figlie (Venus e Serena Williams) diventino campionesse.
Per le sue regole – due atleti uno contro l’altro a difendere la propria trincea – il tennis è anche sublimazione di un conflitto, di una guerra di nervi, di resistenza e, perché no, di genere. “La battaglia dei sessi” del 2017 ne è lo stemma: racconta la sfida tra Billie Jean King e l’ex campione Bobby Riggs che sosteneva che anche a 55 anni avrebbe potuto battere la King, la più forte tennista in attività di allora (era il ’73). Non una semplice partita, dunque, ma un match contro il patriarcato, nel pieno della rivoluzione sessuale e all’alba del movimento femminista.
Altre volte il tennis è solo … tennis. Come in “Borg McEnroe” in cui i due campioni, opposti in tutto (nel modo di giocare e, quindi, di vivere), danno vita ad una sfida epica a Wimbledon nel 1980. E proprio a John McEnroe è dedicato uno dei documentari più incredibili della storia del cinema. Si intitola “L’impero della perfezione” e chiude il cerchio sul rapporto tra tennis e grande schermo, citando, non a caso, le parole di un gigante come Jean-Luc Godard, appassionato di tennis: «Il cinema mente. Lo sport no».
Un modo per dire e per spiegare la difficoltà di rappresentare questo gioco sul grande schermo. Non resta, allora, che capovolgere la prospettiva e raccontare la vita attraverso il tennis. Con quella rete nel mezzo a decidere il finale e a segnare destini. Gioco, partita, incontro.
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