Dalla Triestina alla vittoria del Mondiale del ‘38, poi il declino: la parabola di Gino Colaussi

L’epopea, il declino e la fine dell’ala azzurra gradiscana che conquistò Pozzo. Fu costretto a vendere anche la medaglia di campione del mondo e morì in miseria

Francesco JoriFrancesco Jori
Gino Colaussi con la maglia dell’Italia ai Mondiali del ’38
Gino Colaussi con la maglia dell’Italia ai Mondiali del ’38

Un campione del mondo costretto a impegnare la medaglia d’oro conquistata sul campo per tirare a campare. Triste davvero, la vicenda di una delle più apprezzate ali del calcio italiano, Gino Colaussi, goriziano di Gradisca, classe 1914. Il cognome originario, per dire il vero, era Colàusig, come registrato all’anagrafe; venne italianizzato d’ufficio sotto il fascismo, per una delle tante bestialità del regime.

È figlio di contadini, e appena in grado di lavorare trova un posto da ciabattino, pagato la miseria di due lire per ogni paio di scarpe. Per sua fortuna, ha il calcio nel sangue: gli osservatori della Triestina lo notano fin da giovanissimo, e lo ingaggiano “pagandolo” con due camicie a righe. “Ginùt”, come lo chiamano i compagni, si presenta agli allenamenti in bicicletta, pedalando da casa, gli scarpini da calcio avvolti in carta da giornale.

Ha appena 16 anni quando viene fatto esordire in prima squadra. Il merito è del presidente dell’epoca, Celso Carretti, che lo segnala all’allenatore, l’ungherese Istvan Toth: gli spiega che il ragazzo ha della stoffa, e lo invita a metterlo alla prova. Detto fatto: il 14 settembre 1930 Colaussi viene sperimentato in un’amichevole, e convince subito il mister, che lo fa esordire due settimane dopo, il 28, in una gara di campionato contro il Bologna.

La Triestina all’epoca milita in serie A, e vi rimarrà ininterrottamente fino al 1957. Colaussi viene schierato all’ala sinistra, e si guadagna subito il posto da titolare, segnando il suo primo gol il 2 novembre, in una memorabile “manita” rifilata niente meno che all’Ambrosiana-Inter. Vestirà la prestigiosa maglia alabardata per dieci stagioni, collezionando 248 presenze e realizzando 42 reti.

Le grandi squadre gli mettono inevitabilmente gli occhi addosso; a spuntarla, dopo un paio di stagioni di corteggiamento, è la Juventus, che nel 1940 lo ingaggia versando alla Triestina la somma di 450mila lire; i bianconeri la spuntano sul Genoa, che aveva offerto anche di più, ma società e calciatore preferiscono Torino.

Gino Colaussi alla Juventus
Gino Colaussi alla Juventus

Con quella maglia disputerà 42 gare, segnando sette reti, e contribuendo nel campionato 1941-42 alla conquista della Coppa Italia. Nel 1942 passa al Lanerossi Vicenza, sempre nella massima divisione, dove disputa 47 partite rivelandosi attaccante particolarmente prolifico, grazie a 23 reti. Nel 1946, a 32 anni, ormai all’epilogo della sua carriera calcistica, passa al Padova che è in serie B: vi rimane due stagioni, e chiude in bellezza contribuendo nel 1948 a riportare i biancoscudati in serie A.

Ma il suo periodo d’oro arriva molto prima, quando ha appena 21 anni: a mettergli gli (espertissimi) occhi addosso nel 1935 è il mitico Vittorio Pozzo, dal 1929 alla guida della nazionale azzurra, portandola a vincere nel 1934 la seconda edizione del campionato del mondo (all’epoca, Coppa Rimet). È il 27 ottobre 1935 quando lo schiera in una partita contro la Cecoslovacchia, che l’Italia vince per 2 a 1; un mese dopo lo ripropone in un match contro l’Ungheria, pareggiato per 2 a 2, in cui Colaussi mette a segno il suo primo gol con la maglia azzurra: con la quale disputerà 26 gare, realizzando 15 gol. Il ct vede in lui l’ideale successore, col numero 11, dell’oriundo Raimundo Orsi, tornato in Argentina.

Nel mirino ha il mondiale del 1938: in occasione del quale riuscirà addirittura a convincere il ragazzo a rinviare il matrimonio. Schierato come spalla di uno strepitoso Silvio Piola, Colaussi fa il suo dovere al meglio, contribuendo ad assicurare all’Italia il secondo successo consecutivo nella competizione: segna già nel cammino verso la finale a Francia e Brasile; e si ripete alla grande nel match decisivo, a Parigi, contro l’Ungheria, realizzando una doppietta. Per festeggiare, offre alla squadra una sontuosa cena a base di caviale e champagne.

È l’apice di una parabola che conosce un mesto declino. Appese le scarpette al chiodo, Colaussi intraprende una grigia carriera da allenatore. Amedeo Biavati, suo compagno di squadra nei mondiali vittoriosi del 1938, lo porta con sé addirittura nella Libia di Gheddafi, riuscendo a procurargli un ingaggio alla guida di una rappresentativa dilettantistica; ma sarà un’esperienza breve e infelice, risoltasi in un buco anche dal punto di vista economico.

Rientrato in Italia a inizio degli anni Settanta, Colaussi prova a procurarsi da vivere aprendo un bar a Bassano; ma pure quello si rivelerà un fallimento. Per disperazione, arriverà perfino a impegnare la medaglia d’oro conquistata nel 1938. Nel 1986 lo Stato gli verrà incontro assegnandogli un vitalizio; ma la sua sorte è segnata.

Muore in miseria, la vigilia di Natale del 1991, in una corsia d’ospedale a Trieste; e sarà sepolto nel cimitero monumentale di Sant’Anna. La sua Gradisca gli intitolerà lo stadio, e a Trieste gli verrà intitolata una tribuna. Ma lui se n’era andato in punta di piedi, dimenticato da tutti, povero in canna nel giorno della morte, come lo era stato in quello della nascita. —

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