La manager della scienza: «Sostenere le donne nella ricerca partendo dalle bambine di oggi»

Elena Quagliato, padovana, è direttore generale della Fondazione Centro nazionale per lo sviluppo di terapia genica e farmaci con tecnologia a RNA che conta 1.500 scienziati, il 70% donne: «Una ricchezza nei laboratori, ma bisogna lavorare perché raggiungano sempre più posizioni apicali»

Rubina Bon
Elena Quagliato, direttore generale della Fondazione Centro nazionale per lo sviluppo di terapia genica e farmaci con tecnologia a RNA
Elena Quagliato, direttore generale della Fondazione Centro nazionale per lo sviluppo di terapia genica e farmaci con tecnologia a RNA

Dalle collaborazioni in Università alla direzione generale della Fondazione Centro nazionale per lo sviluppo di terapia genica e farmaci con tecnologia a RNA, hub che coordina una vasta rete di ricerca biomedica finanziato dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Con base a Padova, il Centro conta su 1.500 scienziati al lavoro in tutta Italia per trovare nuovi farmaci salvavita.

Elena Quagliato, padovana, un bagaglio di varie esperienze all’estero, è tornata in Italia per amore. Ha messo su famiglia – è sposata e mamma di un bambino di dieci anni – ed ora è alla guida del Centro dove il 70% degli scienziati è donna.

«Ma è un punto di partenza», spiega, «Le donne nella scienza vanno sostenute cambiando cultura. A partire dagli esempi di modelli femminili positivi presentati ai bambini nelle scuole».

Di cosa si occupa all’interno del Centro nazionale per lo sviluppo di terapia genica e farmaci con tecnologia a RNA?

«Gestisco come direttore generale la complessa macchina organizzativa della Fondazione omonima che si è costituita a seguito di un finanziamento di 320 milioni di euro per un progetto di ricerca in ambito biomedico della durata di 36 mesi, coordinato dall’Università di Padova con una rete di 45 affiliati tra pubblici e privati. L’obiettivo della ricerca è di studiare i meccanismi molecolari che sono alla base all'insorgere delle malattie e di sviluppare nuove terapie utilizzando le tecnologie a RNA, ossia la nuova frontiera della medicina personalizzata. L'obiettivo è, ovviamente, andare oltre il finanziamento e quindi costruire delle strategie per la sostenibilità futura della Fondazione». 

Qual è stato il suo percorso formativo?

«Ho un background umanistico: dopo gli studi in Filosofia ho vissuto all’estero. A Bruxelles sono entrata in contatto con le istituzioni europee e mi sono appassionata al filone dei finanziamenti dell’Ue. Per amore sono rientrata in Italia, dove ho intrapreso un percorso lavorativo, a partire dalle collaborazioni fino al tempo indeterminato, come amministrativo in ambito universitario a Padova e Venezia, specializzandomi in gestione di finanziamenti. Al Bo mi sono occupata dei fondi del Pnrr e in base a un protocollo d’intesa ho iniziato a lavorare per la Fondazione in ambito biomedico».

Come è arrivata alla direzione della Fondazione?

«Quando sono entrata in Fondazione, c’era un direttore uomo che dopo un periodo ha lasciato l’incarico per motivi di salute. In quel momento è stato fatto il mio nome. Sono stata fortunata nel mio percorso: ho avuto vicino persone che hanno apprezzato il lavoro e valorizzato quello che avevo fatto fino ad allora, una cosa che non considero scontata».

Nel suo ruolo dirigenziale si è mai sentita discriminata o sottovalutata in quanto donna?

«Episodi di discriminazione no, ma sicuramente posso dire che è un ambiente difficile, competitivo. Ci sono state occasioni in cui mi sono seduta ai tavoli e c'erano solo uomini: mi sono chiesta come sia possibile nel 2025. Ci sono ancora molti pregiudizi nei confronti delle donne che ricoprono posizioni apicali e su questo, a mio avviso, bisogna lavorare ancora molto a livello culturale».

Pensando al suo ruolo apicale, c’è secondo lei un elemento o una caratteristica che ha fatto preferire una donna rispetto a un uomo?

«Storicamente si attribuiscono certe caratteristiche agli uomini per le posizioni apicali, mi riferisco ad esempio all'ambizione, al saper scegliere nei momenti difficili. Secondo me, invece, una donna in una posizione di leadership può contribuire a creare ambienti veramente collaborativi. Ed è certamente un valore aggiunto».

Elena Quagliato speaker a un evento della Fondazione
Elena Quagliato speaker a un evento della Fondazione

Per il Centro lavorano oltre 1.500 scienziati, il 70% sono donne: come legge questo dato?

«Grazie ai finanziamenti sono stati reclutati ricercatori, dottorandi, studenti nell’ambito del percorso post laurea chiamato Academy, centrando i target importanti richiesti dal Pnrr. Abbiamo dimostrato di poter raggiungere un’altissima percentuale di reclutamento femminile negli ambiti della terapia genica e in generale delle materie scientifiche. Ma quel 70% è un punto di partenza, non un traguardo».

Cosa intende?

«Avere molte donne nei laboratori è certamente un risultato, ma bisogna che ce ne siano anche salendo la scala gerarchica, in ambito manageriale così come accademico. Dobbiamo lavorare per far sì che vengano valorizzate le competenze di queste donne, in particolare delle giovani, affinché possano raggiungere le posizioni che meritano».

Ci sono strumenti come lo smart working e il part-time maggiormente richiesti dalle donne del suo Centro pur di poter lavorare in un ambiente professionalmente stimolante, senza dover venire a patti con la scelta del lavoro e conciliare così gli impegni familiari?

«Sì, le richieste ci sono. Ma questi ed altri strumenti vanno utilizzati meglio e non sono ancora sostenuti a dovere. E poi vanno garantiti la parità salariale ed i congedi familiari sia agli uomini che alle donne, perché i bambini hanno bisogno di entrambe le figure. Tutti questi strumenti andrebbero potenziati e implementati proprio per riuscire a valorizzare la presenza femminile nel lavoro».

Servono le donne alla scienza?

«La scienza è fatta di idee, pensieri, approcci, metodologie. Le donne portano il loro punto di vista, la loro metodologia, il loro pensiero e quindi una scienza senza le donne sarebbe non completa».

Come si possono sostenere le donne nella scienza?

«La partecipazione femminile è una questione di equità sociale. Le donne vanno sostenute partendo da un processo che inizi dai bambini. Ancora oggi, secondo me, ci sono pochi modelli positivi di scienziate che vengono presentati nelle scuole. Invece va rafforzato il processo di consapevolezza sin dall’infanzia per aiutare le generazioni future a superare il divario di genere».

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