Maurizio Milan, l’ingegnere che dà vita ai nostri progetti

Per fare buoni progetti bisogna giocare a ping-pong con gli altri. Vince l’ipotesi migliore, da chiunque provenga. Quando l’oggetto è concepito, non riesci più a capire chi ha messo cosa.

Renzo e Carlo Piano
L'ingegnere Maurizio Milan
L'ingegnere Maurizio Milan

Renzo e Carlo Piano salutano l’ingegner Maurizio Milan con l’articolo - in parte riportato nel volume Affinità strutturati (Bompiani) di cui è autore - che qui stralciamo.

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Quando Maurizio Milan ci ha chiesto di collaborare per scrivere un libro sui tanti progetti realizzati insieme ci abbiamo meditato sopra a lungo. «Lo si potrebbe intitolare Affinità strutturali, ti piace?», ha detto Renzo con un sorriso che presidiava l’intera bocca. Bel titolo, ho ammesso subito, e certamente una proposta interessante, però… Personalmente non sapevo cosa rispondere. Ero combattuto dal dubbio. Riguardo l’ingegneria quasi non distinguo la differenza tra una trave e una putrella, di architettura capisco un po’ di più ma solo perché mio padre Renzo, fin da piccolo, mi ha sempre portato nella polvere dei cantieri. Ricordo l’enorme buco per le fondazioni del Beaubourg, pieno di ruspe, gru, altri strani mostri meccanici e brulicante di centinaia di operai che, agli occhi di un bambino, parevano formiche che costruiscono un formicaio.

Non sapevo che pesci prendere con Maurizio, così in preda a una girandola di pensieri sono andato da Renzo a chiedere consiglio. Lui, l’architetto che gli amici chiamano il Geometra, non mi ha detto di buttarmi o non buttarmi nell’impresa, ma sono state le sue parole che mi hanno convinto a cimentarmi. «Maurizio… Sono quarant’anni che giochiamo a ping-pong assieme – ha esordito - lo scambio è cominciato ai tempi del Prometeo e non si è mai interrotto, rimbalzo dopo rimbalzo. Gli mando la pallina al di là della rete e lui risponde, ma nel momento stesso in cui me la rispedisce in campo la pallina torna modificata. Diversa, migliore, con un effetto che prima non c’era. L’effetto, capisci?».

Capisco che lui e Maurizio si sono conosciuti nel lontano 1983 sul cantiere dell’arca del Prometeo, l’impianto scenico per un’opera avanguardista di Luigi Nono, da costruire all’interno della chiesa sconsacrata di San Lorenzo, a Venezia.

Negli anni a seguire hanno affrontato fianco a fianco lo stadio di San Nicola a Bari, la chiesa di San Pio a San Giovanni Rotondo, il Muse di Trento, l’auditorium a L’Aquila edificato dopo il terremoto, la Torre piloti nel porto di Genova, l’ospedale pediatrico di Emergency in Uganda, voluto da Gino Strada, che era amico sia di Milan che di mio padre e al quale è dedicato Affinità strutturali. Sono solo alcuni dei progetti di cui si racconta nel libro, non tutti arrivati a compimento, fino ad arrivare agli ospedali immersi nella natura che stanno realizzando in Grecia, in Sicilia e al campus del Politecnico di Milano in costruzione alla Bovisa.

Tornando a quel colloquio con mio padre, dopo un breve silenzio di riflessione, lui ha ripreso il discorso sul tennis da tavolo: «Per fare dei buoni progetti bisogna giocare a ping-pong con gli altri, non contro un muro e non da soli. Le palline si incrociano. Sono cresciuto con l’idea che dagli altri c’è sempre qualcosa da imparare. Perché, certo, può anche venirti una buona idea in solitudine – ha continuato a spiegarmi il Geometra - ma se quell’idea resta lì, isolata, si sgonfia, va a esaurirsi e si smarrisce. Invece prende forza se alimentata dal confronto e dalla complicità. La creatività è condivisa. L’ho fatto con Peter Rice, in un palleggio serrato tra costruzione, società e cultura. L’ho fatto anche con Richard Rogers. Lo faccio adesso con Maurizio».

Quasi per scherzo gli ho domando chi ha la meglio in queste partite “all’ultimo respiro”.

«Vince l’ipotesi migliore, da chiunque provenga, anche se alla fine, quando l’oggetto è concepito, non riesci più a capire chi ha messo cosa. Uno butta lì una proposta, magari neanche interessante, ma è un barlume. Un altro la acchiappa aggiungendo un dettaglio, un terzo giocatore precisa un particolare. Così l’idea cresce.

«Insieme, in coro – ha detto ancora Renzo, ma a quel punto ero già convinto a partecipare all’opera. Non è un principio moralistico: è una questione vitale di metodo. Perché in qualsiasi progetto vanno messe insieme tante competenze diverse. Ingegneri strutturisti come Maurizio, tecnici, impiantisti, chimici, biologi, agronomi. Una marea di gente. Nel gioco erano coinvolti anche i musicisti quando abbiamo costruito l’auditorium all’Aquila. L’idea è semplice: devi fidarti di quelli con cui lavori, c’è rispetto reciproco e c’è ascolto vero. Bisogna essere almeno in due a giocare, meglio se in tre o quattro, anche cinque o sei. È il confronto che rende forti sia le idee che le persone».

Allora ho interrotto il flusso in piena dei suoi pensieri chiedendo se avesse un ricordo particolare di Maurizio. Mio padre si è lisciato la barba come un saggio indiano: «Ne ho una collezione intera. C’è una cosa che in lui mi ha sempre colpito: in tutto questo tempo non l’ho mai sentito rispondere non si può fare, anche di fronte alle mie idee più strampalate. Quando eri piccolo e vincemmo con Richard il concorso del Beaubourg ci accolsero a colpi di ce n’est pas possible. Invece si può sempre fare e bisogna farlo». —

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