Rapporto Censis, il ritorno dell’età del ferro nel declino dell’Occidente
La fotografia tracciata dal 50mo rapporto dell’istituto di ricerca socio-economica italiano

“Siamo entrati nell’età selvaggia, fatta di ferro e fuoco, dove forza e violenza hanno preso il sopravvento. A dominare il mondo non è più l’economia, ma un “vitalismo irrazionale”, sostanziato di rivendicazioni identitarie, di fanatismo di desiderio di conquista”.
Questa la cornice entro cui si inserisce la fotografia annuale del 59° Rapporto Censis.
In questo orizzonte a tinte fosche colpisce un dato: un italiano su tre ritiene l’autocrazia uno strumento più adatto delle democrazie liberali per affrontare il difficile tempo presente. Specchio di questa crisi la condizione della Ue.
La mancanza di una Costituzione continentale, non ha permesso di far maturare valori condivisi, questa assenza sta facendo sentire tutto il suo peso, in un mondo attraversato da conflitti a tutte le latitudini. Non c’è da stupirsi dunque se due terzi degli italiani non credono che la vecchia Europa potrà avere un ruolo strategico nel disegnare il futuro, il suo destino sembra quello della marginalità, nel generale declino dell’Occidente.
“Vi sono - spiega Massimiliano Valeri consigliere delegato del Censis - dei fattori strutturali non solo culturali e ideologici che rendono fragili le economie capitaliste. A partire dall’aumento vertiginoso del debito. Tra il 2001 e il 2024 nei Paesi del G7, a fronte di una stentata crescita, il debito è lievitato dal 75 per cento, raggiungendo il 124 per cento del Pil, in Italia siamo passati dal 108 per cento al 134 per cento. Ma non siamo i soli ammalati: i dati di Francia e Inghilterra non sono migliori, con l’aggravante che si stanno creando le condizioni per uno shock pari a quello che abbiamo sperimentato con il covid, quando il debito aveva mondiale sfiorato il 140 per cento del Pil. La differenza va cercata sta nel fatto che tutto questo sta avvenendo in condizioni normali. È evidente che c’è stato un salto di paradigma profondo con cui dobbiamo fare i conti che ha trasformato lo stato fiscale in uno stato debitore. Non si tratta solo di un gioco terminologico, perché il primo grave effetto lo si risente nel disfacimento del welfare, istituzione storica oggi in affanno. Gli interessi del debito pesano come zavorre sui conti pubblici non consentendo nessun abbassamento delle tasse, pochi investimenti per lo sviluppo, scarsa attenzione per la sanità. Nell’ultimo anno la spesa italiana per gli interessi è stata di 85,6 miliardi, il 3’9 per cento del Pil il valore più alto del continente dopo l’Ungheria. Nella sanità spendiamo 54 miliardi mentre l’intero valore degli investimenti pubblici è di 78 miliardi, numeri che non hanno bisogno di commento.
Il “grande debito” inaugura la società del post welfare che per sua natura diviene incubatrice di aggressività. Intanto l’emergenza fa invocare da più parti (l’81 per cento degli italiani) la tassazione dei giganti del web, cosa difficile da attuare.
Non ci sono solo componenti globali nella crisi descritta, esistono fattori endogeni che aggravano il caso Italia a partire dall’inverno demografico, che porta con sé l’azzeramento delle nascite e, come se non bastasse, azzera il processo di proliferazione delle Pmi. Negli ultimi venti anni il numero dei titolari di impresa si è assottigliato passando da circa tre milioni e mezzo a meno di due milioni, sono diminuiti i giovani imprenditori sotto i trenta anni del 46 per cento così come il reddito delle piccole imprese oggi pari al 14 per cento del Pil, era del 28 per cento all’inizio del millennio.
È tutta ricchezza che manca al paese e a un ceto medio che perde pezzi e status mostrando una lacerazione del corpo collettivo che appare evidente nello scarso interesse per la politica e nella escalation dello astensionismo. Il nuovo pantheon delle classi dirigenti non brilla di luce propria appare come un pugile suonato, da colpi che arrivano da Est e da Ovest. Le élite invece di rassicurare i cittadini prospettano catastrofi, guerre imminenti, perdita di competitività, assalto dei migranti nuove barbarie alle porte, collasso climatico. Un rosario di negatività, di cui gli italiani sono consapevoli.
Malgrado questo non si rifugiano nel grande “hotel abbisso”, immagine di Giorgio de Rita, ed è questa probabilmente la sorpresa maggiore che viene dal Rapporto. Forse non siamo un popolo preparato a quello che verrà, ma abbiamo resistito, reagendo alla chiamata collettiva che obbligava alle prove di forza: militare, fiscale, tecnocratica. Non abbiamo ceduto, non abbiamo inseguito le leadership aggressive a cominciare da quella americana. Abbiamo ritrovato lo spirito contadino originario di un paese che vuole reagire non abbandonandosi all’apocalisse. Il Censis dedica, in questa ottica, un capitolo ai piaceri italiani, alla ricerca di una luce da cui poter finalmente ripartire.
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