Guarire dal fuoco, il dottor Bruno Azzena: «Il Centro grandi ustioni eccellenza a Nordest»

L’ormai ex direttore dell’Unità complessa dell’Azienda ospedaliera si racconta dopo 40 anni sempre in prima linea: la passione per il lavoro e la sua Sardegna

Paolo Baron
Il dottor Bruno Azzena
Il dottor Bruno Azzena

«Posso dire una cosa prima di tutto?».

Prego.

«Il Centro Ustioni è stato un’esperienza bellissima. Ho contribuito a farlo crescere e ho avuto il privilegio di dirigerlo. Mi auguro che chiunque prenda il mio posto abbia la capacità di migliorarlo e di avere la passione che ho avuto io. E anche di più. Per questo ringrazio i colleghi medici e tutti gli infermieri con cui ho avuto l’onore di lavorare. Il Centro Ustioni è un valore aggiunto nella formazione e nell’esercizio della Chirurgia Plastica».

Ecco qui il Bruno Azzena inedito. Concede l’intervista ma prende l’interlocutore in contropiede come avrebbe fatto Gigi Riva nelle sue giornate migliori. Azzena, ormai ex direttore del Centro Grandi Ustionati, struttura di eccellenza dell’Azienda ospedaliera di Padova, è andato in pensione nella primavera scorsa e se n’è tornato nella sua Sardegna dove ha trascorso l’intera estate prima di riemergere. Il tempo di rimettere in fila pensieri ed emozioni di una carriera lunga 40 anni.

Sardo di Olbia, malato di sardità come si autodefinisce, 65 anni compiuti da poco, Bruno Azzena è arrivato a Padova nel settembre del 1978, per studiare Medicina. A 23 anni, nel luglio del 1984 si è laureato, specializzandosi in Chirurgia Plastica, lavorando all’inizio con il professor Giovanni Dogo e poi con il professor Francesco Mazzoleni, che lo volle con sé facendolo lavorare anche nel reparto Grandi Ustionati, che Azzena ha diretto prima da responsabile e poi da direttore.

«Già, ho lavorato a cavallo dei due secoli. E ho visto la mia professione cambiare profondamente. Dal punto di vista tecnologico sono stati fatti passi da gigante. Ho contribuito a introdurre le biotecnologie e la microchirurgia nel trattare le patologie più complesse della Chirurgia Plastica. Padova era ed è un centro di riferimento nazionale ed internazionale per la cura delle ustioni estese».

Se lo lasci dire: lei è uno dei pochi medici che va in pensione a 65 anni.

«Ho lasciato per motivi personali, per avere più tempo per me stesso. Negli ultimi anni la mancanza di personale sanitario, i pochi mezzi e i minori finanziamenti mi hanno convinto ad andare in pensione. E ho realizzato che era arrivato il momento».

È sempre più difficile reperire medici e infermieri da impiegare nel pubblico. Cosa servirebbe per invertire il trend?

«Serve rimotivare il personale. I Centri ustioni e le strutture sanitarie in generale sono luoghi dove le persone fanno la differenza. Io ho avuto la fortuna di lavorare con medici, specializzandi e personale infermieristico di altissimo livello. Persone che mi hanno arricchito professionalmente. Colleghi molto competenti che avevano e hanno sempre voglia di tenersi aggiornati. E credo che i risultati in questi anni si siano visti».

Alcuni dicono che non sia facile lavorare insieme con lei. Che abbia un caratteraccio...

«Sul lavoro ho sempre preteso da me stesso e da chi mi stava a fianco il massimo. Ho davvero fatto questo mestiere nell’unico modo che conosco: dare tutto. Certo poi difficoltà e tensioni ci sono in tutti i luoghi di lavoro. Ma l’importante è il dialogo e il rispetto che credo non siano mai mancati».

Poi, ridendo, aggiunge.

«Nei primi anni Duemila sono stato segnalato da una associazione per aver curato bimbi ucraini e sono stato premiato ad Assisi con il premio Bontà (nel 2003 insieme a un’altra padovana, Luisa Favorido, ex coordinatrice dell’associazione Graco, ndr). Forse non ho tutto ’sto caratteraccio».

Fra il 1990 e il 1992 lei partecipò al progetto della Chirurgia plastica di Padova che aprì un Centro Ustioni per le vittime di guerra al Neves Bandinha Hospital in Angola, giusto?

«Sì. Esperienza di cui vado fiero».

Parliamo di Chirurgia plastica ricostruttiva e di Chirurgia di emergenza. Lei ha curato i feriti di grandi drammi e tragedie: tra questi, quelli del rogo dell’Elettrolux, gli ustionati dell’incidente ferroviario di Viareggio, la bimba ucraina della strage del bus di Mestre. Dal punto di vista umano quanto è stato difficile?

«Molto. Si tratta di patologie complesse che alterano l’immagine corporea di chi ne è colpito. Noi abbiamo l’obbligo di curare alleviando il dolore fisico e psicologico nei lunghi periodi di malattia e nei complessi percorsi riabilitativi. In certe situazioni si crea una rapporto équipe - pazienti molto forte. Che continua anche dopo le dimissioni».

Poi ci sono anche casi di sovraesposizione mediatica. Tipo l’alpinista Marco Confortola che nel 2008 arrivò con le dita dei piedi congelate dopo il cosiddetto disastro del K2. O le vittime di Unabomber. Oppure il giocatore del Lanerossi Vicenza Julio Valentin Gonzalez a cui lei nel 2002 provò a reimpiantare e successivamente dovette amputare un braccio a seguito di incidente stradale.

«Già. Ma non per questo io e i miei colleghi li abbiamo trattati in modo diverso. Quando si schiantò Gonzalez, era uno dei giorni prima di Natale. Ero reperibile. Lo operammo d’urgenza. Dopo un iniziale ottimismo sopraggiunse una complicanza. Lui però dimostrò una forza tale che fu un esempio per tutti».

Una domanda gliela devo fare: lei ha avuto in cura anche Pasquale Iacovone, padre che nel luglio del 2013, nel Bresciano, uccise e poi bruciò con la benzina i figli di 9 e 13 anni per fare dispetto alla moglie separata, rimanendo a sua volta gravemente ustionato. Quando arrivò nel suo reparto, cosa ha pensato?

«Per usare un termine âio sono sempre stato un medico ippocratico. Non sono qui per giudicare o condannare. Anche di fronte a un crimine orrendo il fine di questa professione è la cura».

Lei, malato di sardità, ha vissuto 40 anni a Padova: la città del Santo o la sua Sardegna?

«Con Padova ho un legame fortissimo e bello. È la città dove ho molti amici, dove vive parte della mia famiglia. Poi c’è Olbia, la mia città, e Golfo Aranci, dove trascorro le vacanze. In Sardegna c’è un elemento a cui sono troppo legato: il mare».

Ultima domanda: chi avrà ancora bisogno di lei dove potrà trovarla?

«In Sardegna o in Veneto dove sono sempre stato». —

 

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