Zaia dopo 15 anni di governo del Veneto: «Io, self-made man. Ma l’Autonomia resta la mia incompiuta»
Dalla gioventù come pr nelle discoteche all’amore per i cavalli, fino alla politica. Il presidente della Regione si racconta a pochi giorni dalla fine del terzo mandato: «Ho imparato a relativizzare, sapevo che questo momento sarebbe arrivato»

Presidente, ha iniziato a fare gli scatoloni?
«Ho i cassetti vuoti. Avevo dei libri, un paio di leoni sul tavolo e poco altro. I regali li ho sempre donati per la pesca di beneficenza per l’asilo del mio paese: libri, bottiglie di vino...».
Eccolo, Luca Zaia. Partito dal consiglio comunale di Godega di Sant’Urbano, poi presidente della Provincia (Treviso) più giovane d’Italia, ministro dell’Agricoltura, vicepresidente della Regione. E poi, per tre mandati consecutivi, al vertice di palazzo Balbi.
Ora che cala il sipario, come si sente?
«Lo sapevo fin dal primo giorno, ho imparato a relativizzare. Eviterei di essere patetico».
Quindici anni e mezzo da uomo più importante del Veneto, però, sono tanti...
«C’è chi, al posto mio, sbatterebbe la testa contro il muro. Invece bisogna capire che le cose hanno un inizio e una fine, la vita ha i suoi cicli».
Riavvolgiamo il nastro: la sua infanzia?
«Ho avuto la fortuna di vivere un’infanzia che auguro a tutti i ragazzi. Ci buttavamo nei fossi, anche d’inverno. Se Rousseau avesse dovuto identificare l’Emilio, sarei stato io: il bambino nella giungla».
La figura di riferimento?
«Mio nonno paterno, Enrico. Nato il 5 maggio 1896 in Brasile, a 14 anni è arrivato in Veneto e nel 1929 è emigrato a New York. Dopo tanti sacrifici, ha acquistato dei terreni e si è fatto una casa».
Luca adolescente?
«Ho fatto tante battaglie. Gli adolescenti, come i puledri, sgroppano. Ero bravo a scuola, mai rimandato, ma guidavo gli studenti e organizzavo feste: il preside me l’ha giurata».
Il re delle discoteche?
«Se non avessi fatto la scuola enologica, non avrei iniziato con le discoteche. Allora c’era una festa, il Baccanale. Un anno la organizzai io con due amici, da lì nacque l’associazione Bacco’s production con cui iniziai a organizzare eventi da tremila persone. Sono stato io a inventare gli inviti».
Cioè?
«Fogli in formato A4. Perché, quando andavo al mercato con mia mamma, trovavo sempre sull’auto questi volantini con le promozioni dei negozi di scarpe. Perché non farli anche per le discoteche?».
Con chi si confida?
«Con mia moglie».
Qualcosa che le rimprovera?
«Abbiamo un bel rapporto, rispetta il mio lavoro».
Gli amici?
«Quelli di sempre. Frequento le persone che frequentavo da studente. È il consiglio che darei a chi vuole fare politica: se cambi stile di vita, è finita».
Non le è mai mancata la libertà di passeggiare per strada senza essere fermato?
«I cittadini sono sempre affettuosi, non li percepisco come un disturbo. Poi capita di incontrare chi ti vuole fare la lezione di geopolitica in tre secondi, e pensi: ma questo ghe xeo o ghe fao? Questo lavoro, da fuori, sembra tutto luccichii: non è così. Comunque, in miniera si soffre molto di più».
È credente?
«Certo, sono stato anche chierichetto».
Domenica mattina a messa?
«Raramente».
E il sabato sera cosa fa?
«Con gli amici e mia moglie, che è una bravissima cuoca».
E lei cucina?
«Sono il re del barbecue (ride, ndr)».
Il posto del cuore?
«Sembra scontato, ma è il Veneto. Poi, ho girato il mondo. Pantelleria mi è sempre piaciuta. La sera è magica, per il silenzio e il buio. Si vedono ancora le stelle».
Il viaggio più bello?
«A 18 anni, con due amici, in Andalusia. Gli ho dedicato un libro».
Passioni?
«Il cavallo. Per me è famiglia, papà ne aveva otto. Quando ero piccolo non potevo montarli e quindi mettevo le selle sul muretto del giardino e facevo finta. Poi ho avuto Mary, una cavalla saura, e tanti altri».
Ora?
«No, ho sofferto molto la morte di Royal, nel 2019. Viveva libero in giardino dai miei, mancava poco che entrasse pure in casa».
Quando è morto, ha pianto?
«Sì, per me era un fratello».
Altre passioni?
«Sono sportivo. Ho giocato a tennis, avevo un maestro argentino. Poi mi è venuta l’epicondilite e ho smesso».
Un pregio e un difetto?
«Sono puntiglioso, non sopporto il pressapochismo: è sia un pregio che un difetto».
È rancoroso?
«Non so cosa siano odio, rancore e sete di vendetta».
Crozza l’ha fatta diventare famoso: le è grato?
«Non ci siamo mai parlati, ma è una delle voci ironiche più argute e divertenti».
La politica com’è entrata nella sua vita?
«Ero all’università e abitavo con mio cugino. Un giorno mi disse che nel nostro comune, Sant’Urbano, cercavano qualcuno che si candidasse. Dopo la caduta della Prima Repubblica, i politici non si presentavano da nessuna parte, la gente li aggrediva. Fare politica era diventata una vergogna. Mi sono buttato e sono stato eletto, ho fatto il capogruppo sia di maggioranza che d’opposizione. Poi sono andato in consiglio provinciale, da più votato. Mi hanno dato come premio di consolazione l’assessorato all’Agricoltura: l’ho reso quello di riferimento».
Ha sempre votato Lega?
«Liga veneta».
Giusto...
«C’è stata un’opera di evangelizzazione laica del territorio, da parte dei pionieri come Gobbo. Vendeva attrezzi per officine e, quando portava le chiavi inglesi a mio padre meccanico, gli lasciava anche un volantino. I primi elettori della Liga sono stati gli artigiani».
Era più a suo agio nella Liga di allora o nella Lega di oggi?
«C’è stata un’evoluzione, ma l’importante è non perdere di vista la propria natura. La Lega ha dei dogmi: identità, federalismo, autonomia, difesa di chi non ha voce. Siamo quelli che parlano di popolo, chi lo fa se non noi?».
Il suo maestro in politica?
«Sono un self-made man. Ho visto il primo comizio quando ho cominciato a farne».
Ministro dell’Agricoltura: meglio lei o Lollobrigida?
«Non lo dovete chiedere a me. L’ho fatto in un periodo storico diverso, con le proteste nelle strade per le quote latte. Ognuno ha il suo stile, ma se andate in giro per l’Italia e trovate un contadino, sono sicuro che vi parlerà bene di me».
Il potere crea dipendenza?
«A volte diventa patologia, nascondendo personalità irrisolte. Vedo gente che si rovina la vita per la politica. Il potere non crea dipendenza, se riesci a mantenere il giusto distacco».
Lei lo ha mantenuto?
«Ho sempre vissuto il mio mandato con spirito di servizio e di rispetto nei confronti dei cittadini. Ho fatto togliere la corsia rossa sulle scale di palazzo Balbi, al ministero c’erano gli uscieri in frac: gliel’ho fatto togliere. Siamo servitori».
Il film di questi quindici anni da presidente?
«Un sogno, mio e della Liga. Oggi sono orgoglioso, la gente per strada mi ringrazia».
È il più longevo, eppure sperava di poter rimanere...
«Non lo speravo. Mi arrabbio quando parlano di centri di potere per sostenere il no al terzo mandato. Questo vincolo esiste solo per alcuni sindaci e governatori, anomalia italiana. È un’offesa ai cittadini».
Che non votano più...
«Bisogna creare un election day nazionale per evitare che la gente stia a casa. Faccio un appello, anche per questa tornata: andate alle urne».
Ha mai pensato di mollare?
«Mai. Se pensi di mollare è perché le cose vanno male. Ma farlo è da irresponsabili».
Il momento più difficile?
«Il Covid. Il mondo si è fermato e nessuno ricorda più niente».
Un attacco che l’ha ferita?
«Quelli contro i veneti».
Tipo?
«Dire che siamo un branco di ubriaconi».
E le critiche sui giornali?
«Evito di leggere cose che mi riguardano, non bisogna farsi condizionare».
La sua grande incompiuta?
«Ho fatto tante belle cose: le Olimpiadi, la Pedemontana, la sanità che funziona. Incompiute? Forse il completamento della Valdastico Nord, che però non compete alla regione. E poi l’Autonomia: vorrei averla già tutta. Rimane un sogno».
Cioè?
«Candidare il Veneto alle Olimpiadi estive, i tempi sono maturi. Pensare in grande è doveroso per la nostra regione».
Come ha vissuto questo mese da comprimario?
«Come andava fatto. Stefani mi ha chiesto di dargli una mano e mi sono messo a disposizione. Ma per me non è una campagna facile».
Perché?
«Molti cittadini pensano che il capolista sia eletto d’ufficio, non è così. E molti candidati dicono in giro che non serve darmi la preferenza, perché ne avrò già tante. Per me non è la sfida del secolo, però ho fatto una campagna nel mio stile, con il leoncino fatto dall’Ai».
E di chi è l’idea?
«Mia».
Si sente un po’ come Mimmo, il delfino che vogliono mandare via da Venezia, ma che poi torna sempre?
«Inviterei a non sottovalutarlo. Ci sono componenti di umanità, rispetto e immagine che potrebbero trasformare questa storia in un caso internazionale, utile sia a Venezia che all’Italia».
Martedì cosa farà?
«Il protagonista deve essere il nuovo presidente».
E nel futuro?
«Se ne parlerà più avanti. Sono concentrato sulla Regione, che credo debba essere trattata coi guanti bianchi».
A chi deve dire grazie?
«Ai veneti, mi sono sempre stati vicini. Non tutti i governatori hanno avuto la mia fortuna. Ma forse bisogna anche meritarsela». —
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