Regionali in Veneto, Feltrin: «Oggi si vota più per difesa che per convinzione»
Il politologo Paolo Feltrin analizza l’esito elettorale e la bassa affluenza: «Chi pensava al sorpasso di FdI non ha capito che il consenso a destra è intercambiabile»

Affluenza, disincanto e voto liquido: Paolo Feltrin radiografa il Veneto che esce dalle urne. Una lettura priva di indulgenza, che scava nelle pieghe della partecipazione e restituisce il ritratto di un elettorato stanco, mobile, distante. Non c’è solo il risultato, ma ciò che lo precede e lo spiega: calendarizzazione discutibile, campagne estenuanti, meccanismi democratici che non facilitano il voto. E soprattutto un Veneto che invecchia e si disaffeziona.
Professor Feltrin, il dato sull’affluenza è forse il segnale più eloquente di questa tornata. Ma quanto è davvero attendibile?
«Bisogna fare una distinzione seria. Se togliamo dal computo i residenti all’estero – che di fatto non votano, né dal Brasile né dall’Inghilterra – l’affluenza reale sale al 50,8%. Significa circa 6,2 punti in più rispetto al dato ufficiale del 44,6%. Gli iscritti AIRE sono ormai 524 mila, il 12% dell’elettorato. Continuare a considerarli come se partecipassero al voto significa ragionare su numeri che non rappresentano la realtà».
Non siamo di fronte a un crollo così verticale come appare?
«Non voglio dire che sia un dato rassicurante, ma va letto correttamente. Il problema resta serio, però bisogna evitare letture basate su grandezze falsate».
Quali sono, a suo giudizio, le cause principali dell’abbassamento della partecipazione?
«È una combinazione di fattori. La campagna elettorale è stata troppo lunga, più di un anno, ed è arrivata completamente sfiancata all’ultimo mese. Una campagna fiacca, senza più nulla da dire. E come in qualsiasi mercato, se non fai propaganda, se non comunichi, nessuno “compra”, cioè nessuno vota».
C’è anche una responsabilità politica diretta?
«Certamente. Se ai politici fosse davvero importato della partecipazione, avrebbero fatto un election day, avrebbero accorpato le regioni e anticipato il voto a fine settembre, non a fine novembre. A settembre sarebbe andata a votare molta più gente, soprattutto gli anziani. Il 23-24 novembre, con il freddo, in una regione del Nord, non è una scelta neutra».
Esiste però anche un fattore strutturale di disaffezione?
«Sì, ed è fisiologico fino a un certo punto. In tutte le democrazie c’è un 20-25% che non vota per protesta o disinteresse. Quando vota il 95% c’è quasi da preoccuparsi, il famoso voto bulgaro. Il problema è che noi siamo passati dal 70-75% al 50%. E non offriamo nessuno strumento per facilitare il voto: niente voto anticipato, niente voto elettronico, niente voto postale. In Norvegia si poteva votare per due mesi. Da noi, nulla».
Sul piano politico, ci sono state sorprese nei risultati?
«Rispetto ad alcuni sondaggi sì: il centrosinistra ha fatto peggio, posizionandosi sotto il 30%. In alcuni capoluoghi è andata sopra, ma molto distante dal centrodestra. Poi ci sono casi isolati come Padova e Venezia dove la coalizione per Manildo è praticamente allineata a quella per Stefani».
C’è una correlazione tra affluenza e voto al centrosinistra, Padova mostra la partecipazione al voto più elevata della regione, seguita da Venezia.
«Qualcosa sì. Dove si vota di più, il centrosinistra tende ad andare leggermente meglio. Ma non parlerei di rivoluzioni. Il centrodestra è sostanzialmente allineato alle sue performance storiche».
Quindi su quel versante nessuna sorpresa...
«In realtà c’è stato un altro errore macroscopico dei sondaggi, meno evidenziato: hanno restituito un quadro falsato dei rapporti interni al centrodestra. Il confronto Lega–Fratelli d’Italia è stato letto male. Chi pensava ad un sorpasso di Fratelli d'Italia non ha colto la reale dinamica del voto. E va sottolineato che il risultato schiacciante della Lega (circa il doppio rispetto a FdL ndr) è legato essenzialmente alla mole di dati drenati dalla figura di Luca Zaia. Quindi dipende da lui. Ciò detto resta la considerazione di base: i dati mostrano uno spostamenti di consenso che i sondaggi non hanno saputo intercettare».
Quindi il problema non è solo chi vince, ma come si distribuisce il consenso?
«La cosa interessante è l’estrema intercambiabilità del voto nel centrodestra. Lo stesso elettore passa da Forza Italia alla Lega, poi a Fratelli d’Italia, poi ritorna. Votano quasi come se scegliessero correnti di uno stesso blocco politico, pur con differenze ideologiche reali. Questo garantisce al centrodestra una tenuta strutturale che il centrosinistra non ha».
Che lettura dà del risultato complessivo del centrodestra?
«Non parlerei di scosse telluriche. Siamo sui livelli delle precedenti regionali: nel 2015 era oltre il 60%, nel 2010 al 61%. Qui Siamo attorno al 64%».
E il voto di protesta?
«La Lista Szumski è un esempio, con il suo 5%, qui sono confluiti vari mal di pancia: no vax, protesta radicale, frange estreme. Lì votano quasi tutti, mentre altrove molti restano a casa. Questo gonfia percentualità che però non rappresentano un consenso strutturale».
Che Veneto esce da questo voto?
«Un Veneto stanco. E anche vecchio. La partecipazione giovanile è bassissima, e non per caso: sono pochi e sanno di contare poco, quindi se ne stanno a casa. È un elettorato che si sente irrilevante. E questo è un dato politico».
Una regione che non si riconosce più nella politica?
«Direi un Veneto disallineato, affaticato, che vota più per rassegnazione o per difesa, più che per convinzione».
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