Emendamento sul terzo mandato, arriva lo stop di Forza Italia. Tajani: «Noi non lo votiamo»

La Lega ottiene la proroga di una settimana sul ddl relativo all’aumento di assessori e consiglieri: potrebbe essere l’ultima occasione possibile, per il Carroccio, per ottenere uno Zaia-quater

Laura Berlinghieri
Antonio Tajani, leader nazionale di Forza Italia
Antonio Tajani, leader nazionale di Forza Italia

È successo tutto nel giro di pochi minuti. La Lega che chiede, e ottiene, la proroga di una settimana della scadenza per la presentazione di proposte emendative al disegno di legge, in discussione nella commissione Affari costituzionali del Senato, per aumentare il numero degli assessori e dei consiglieri regionali.

E Antonio Tajani, il leader nazionale di Forza Italia, che commenta, secco: «La Lega può presentare l'emendamento che vuole, noi non lo votiamo».

Perché quell’emendamento – filtra da voci romane – non sarebbe stato altro che il cavallo di Troia per anticipare i tempi parlamentari. Ultima occasione di un blitz, per la rediviva riforma per il terzo mandato dei presidenti di Regione. Ultima occasione – c’è chi mormora – per la Lega, per mantenere l’amministrazione della Regione Veneto. E per accreditarsi un vantaggio in Friuli Venezia GIulia.

L’emendamento al disegno di legge

È successo nella tarda mattinata di ieri. Quando i notisti politici continuavano ad aggiornare la pagina web di Palazzo Madama, in attesa di veder spuntare il famoso “emendamento”. Quello per portare da due a tre il numero limite dei mandati consecutivi per i presidenti di Regione, e probabilmente pure per i sindaci dei Comuni con più di 15 mila abitanti.

La scadenza era fissata per le 14. Ma, un paio d’ore prima, il colpo da maestro. La richiesta, avanzata dal gruppo del Carroccio e approvata dall’ufficio di presidenza della commissione Affari costituzionali, di posticipare di sette giorni il termine ultimo per presentare eventuali emendamenti.

«La Lega non aveva mai chiesto slittamenti di questo genere. Quindi, perché non concederglielo? Una settimana in più o meno non fa differenza» il commento, intanto, di Alberto Balboni (FdI), presidente della commissione.

La speranza di un accordo

Un tempo necessario – si vocifera dalle parti di via Bellerio – per convincere i compagni di coalizione a votare in maniera compatta a favore della la riforma. Con quali argomenti non è cosa ancora nota, considerando la risposta di Tajani, arrivata a strettissimo giro: un «No» secco che, pure in una politica che resta “l’arte dell’impossibile”, non sembra lasciare aperto alcun margine di trattativa.

Il nodo dell’inammissibilità

Peraltro, il citato emendamento sarà certamente costretto ad affrontare un ostacolo fin dall’inizio: quello dell’ammissibilità. E non sarà un intralcio puramente formale, né di poco conto, considerando il contenuto piuttosto diverso dell’emendamento rispetto a quello che permea il disegno di legge a cui i leghisti – e, forse, i Fratelli – lo vorrebbero “appiccicare”.

«Un emendamento sul terzo mandato è palesemente estraneo per materia a questo disegno di legge. Un disegno di legge che non ha per tema i requisiti di eleggibilità di una carica esecutiva monocratica. Requisiti che sono un elemento delicato sul piano democratico. Credo che nessuno in maggioranza si azzarderà a depositare un emendamento che il presidente dovrebbe necessariamente considerare inammissibile, a meno di compiere gravi forzature istituzionali che non voglio nemmeno immaginare» la dichiarazione al Domani del senatore del Partito Democratico Dario Parrini, vicepresidente della commissione Affari costituzionali a Palazzo Madama.

I precedenti

Senza contare che proprio quella stessa commissione era stata, in un passato nemmeno così remoto, l’esatta sede che aveva visto ripetutamente la proposta di terzo mandato cadere, sotto i colpi del fuoco amico dei Fratelli d’Italia e dei forzisti. Quanto a questi ultimi, per loro l’esito del voto non dovrebbe cambiare. Quanto invece ai meloniani, questi sembrano essere tornati su più miti consigli. E c’è chi vocifera che, dopo la batosta di Genova, il palesarsi di uno scenario da “quattro a uno” alle prossime elezioni regionali – con la sola certezza del Veneto, roccaforte del centrodestra – abbia convinto Meloni a rivedere la sua posizione. E quindi rinunciare al Veneto, mettendo al contempo un’opa sulla Lombardia, nell’ottica di un vantaggio maggiore: spaccare il centrosinistra nella Campania di Vicenzo De Luca.

Tutte ricostruzioni ex post, in questo mare di incertezze, senza una stella polare. Soltanto ipotesi, in un’estate caldissima, nella quale può ancora succedere di tutto.

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