Gli Spomenik e la ricerca contemporanea di una narrazione perduta
Ali gigantesche, globi di ferro, fiori di cemento e ancora pugni al cielo e costruzioni astratte: la riscoperta dei semi di una identità collettiva che la Jugoslavia sparse sul suo territorio a centinaia, tra il 1950 e il 1990

La sfida tra kebab e burek sembra un vero e proprio derby tutto orientale a Ilirska Bistrica (Bisterza), non lontano dal confine croato. La Slovenia delle caffetterie alla moda di Lubiana e Maribor è lontana e la via principale è un susseguirsi di fast food turchi; se non fosse per le coordinate GPS di Spomenik Database, il più grande monumento della regione sarebbe del tutto invisibile.
In mezzo a un quartiere che sembra uscito da una periferia di una capitale baltica, ci troviamo catapultati in un parco immenso e curatissimo in cui spicca un cubo di cemento armato: è il monumento dedicato ai combattenti della Quarta Armata jugoslava che liberarono quest'area durante la Seconda Guerra Mondiale. I resti di 284 di questi soldati, caduti durante la battaglia, sono sepolti in una fossa comune sotto il cubo. L’opera dello scultore Janez Lenassi presenta una forma con interpretazioni multiple: le colonne scanalate richiamano le vicine grotte di Postumia ma possono anche simboleggiare il sacrificio dei partigiani che regge il nostro mondo. Cosa rende così affascinanti questi monumenti provenienti da un Paese che non c’è più?
La Jugoslavia sparse sul suo territorio centinaia di Spomenik, come semi di un'identità collettiva, tra il 1950 e il 1990. Ali gigantesche, globi di ferro, fiori di cemento e ancora pugni al cielo e costruzioni astratte che, per la gran parte, commemorano pagine tragiche della storia, specialmente legate alle battaglie partigiane.
Oggi, dopo oltre trent’anni dalla dissoluzione della Jugoslavia, questi curiosi monumenti attraversano una fase particolare della loro storia. Dopo un lungo periodo di oblio, hanno ritrovato una certa notorietà globale, grazie al lavoro di molti appassionati che li hanno fotografati, raccontati e postati su Instagram come icone di un’estetica “strana” e misteriosa, finendo così per incuriosire generazioni più giovani e persone che durante l’epoca di Tito non erano nemmeno nate.
Una veloce ricerca su Google Trends mostra un interesse in costante crescita negli ultimi 20 anni.

Il sito Spomenik Database, curato dal fotografo Donald Niebyl, ha indubbiamente contribuito con il proprio lavoro meticoloso a far conoscere gli Spomenik: dal 2013, quando il Guardian li definì “Monumenti che sembrano arte aliena”, le visite sono esplose.
Gianni Galleri, fondatore di Meridiano 13, è uno degli italiani più appassionati al tema e racconta il suo viaggio attraverso questi monumenti (di cui 4, dimenticatissimi, si trovano anche su suolo italiano). Nel suo ultimo libro che si chiama “Spomenik: viaggio spaziale nella Jugoslavia che resta”, ne spiega così la genesi creativa: “Si cercò una strada solamente e interamente jugoslava, che non avesse niente in comune con quella sovietica, ma che parlasse con una voce nuova. Niente ‘realismo socialista’, niente corpi straziati dal dolore, madri piangenti, alacri operai, eroi lanciati in imprese memorabili. Le influenze arrivarono da altrove. Dall’Europa occidentale e dall’America, grazie al ricorso a stili plastici come l’espressionismo astratto, l’astrazione geometrica o il minimalismo (…) La Jugoslavia doveva guardare avanti, doveva lanciarsi verso il futuro, ottimista, orgogliosa e guarita”.
Il socialismo non allineato
Questi monumenti incarnavano una narrazione forte, quella di un socialismo non allineato che sognava un futuro dai tratti distopici, fatto di progresso tecnologico, fratellanza e ideologia che diventava struttura sociale. Messa per sempre nel cassetto la Jugoslavia, gli Spomenik rimangono testimoni di un Paese che non esiste più e di un’epoca in cui l’arte pubblica osava proporre una narrazione collettiva. Eppure, il loro ritorno su Instagram non è solo un capriccio estetico: in un tempo dominato da mode passeggere e da continue bolle di attualità che appaiono e scompaiono, questi oggetti sembrano dirci: hey, quello che costruite può avere un significato.
Non tutta l’architettura deve essere per forza espressione della moda del momento, ci sono cose che sono fatte per restare, ci può essere uno scopo per cui si costruisce che vada a toccare le nostre corde più profonde, una narrazione in cui rispecchiarsi e in cui ritrovare valori, radici e senso di un futuro condiviso. Con la loro strana imponenza, queste capsule del tempo balcaniche promettono profondità in un mondo di architetture contemporanee prive di ethos.
Si spiega così anche il recente successo dell’immagine di una certa architettura razionalista italiana, di cui un sorprendente esempio è il caso di Tresigallo, la “città metafisica” che grazie a Instagram ha ritrovato un suo perché, anche da un punto di vista turistico.
Si pensi anche al fenomeno urbex (urban exploration), con molti esploratori urbani che propongono video di architetture di epoca nazionalsocialista e sono seguiti da centinaia di migliaia di follower, come https://www.instagram.com/blitzwinkel_/ e https://www.instagram.com/dieneuebaukunst_ che vende su Patreon le geolocalizzazioni dei monumenti scoperti: una vera caccia al tesoro attraverso le epoche.
Un’eco di questa tensione tra memoria e reinvenzione si è colta nella recente mostra “Monumenti, progetti e utopie” di Sam Durant al +MSUM di Lubiana. L’artista americano ha invitato i visitatori a non limitarsi a osservare, ma a co-creare: modellare piccoli monumenti in argilla, scrivere slogan ribelli, riflettere su utopie passate che immaginavano futuri alternativi. La mostra si è trasformata in uno spazio attivo dove il pubblico impara, immagina e progetta.


Nel plastico di Durant i visitatori plasmano un proprio “monumento”, con la colla a caldo, secondo i propri gusti. In questo invito alla creatività emerge però un paradosso: quando ciascuno appiccica la propria narrazione a questi oggetti gli Spomenik rischiano di perdere la loro essenza. Non sono più reliquie di un ethos specifico, diventano generici, intercambiabili come una qualsiasi anonima architettura contemporanea. Insomma, gli Spomenik non sono quello che vorremmo che fossero, non sono narrazioni liquide, ma ci ricordano invece che certe storie non si reinventano a piacimento ma sopravvivono, testarde e dure come il cemento, nonostante l’incuria e i vandalismi, nonostante le divisioni etniche e le violenze. Nonostante la nostra cattiva abitudine di dare sempre un significato passeggero alle cose.
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