Le tensioni su Bosnia e Kosovo minano l’accordo fra i leader

LUBIANA Sinceri appelli all’allargamento della Ue ai Balcani, alla concessione dello status di Paese candidato a Sarajevo e all’abolizione dei visti per Pristina. Ma i casi Bosnia e Kosovo si dimostrano insormontabili. E mettono i bastoni tra le ruote pure al vertice del Processo Brdo-Brioni, in Slovenia, iniziativa lanciata nel 2010 da Lubiana e Zagabria per spingere sull’acceleratore dell’integrazione euro-atlantica dei Balcani.
Si potrebbe riassumere così l’esito del vertice di ieri a Brdo pri Kranju, dove tutti i presidenti dei Paesi dei Balcani occidentali ancora fuori dalla Ue si sono ritrovati per discutere del futuro della regione, ospiti del presidente sloveno Borut Pahor e dell’omologo croato, Zoran Milanović. Ma oltre al futuro è il presente dei Balcani che preoccupa, tra posizioni insormontabili e nodi che non si sciolgono. Lo hanno suggerito le parole di Pahor e Milanović, che nella conferenza stampa a conclusione del summit hanno confermato le voci della vigilia. Nel vertice i leader politici della regione non sono riusciti neppure a raggiungere un compromesso sulla dichiarazione congiunta finale, sostituita da meno impegnative «conclusioni». «Abbiamo rinunciato alla dichiarazione», ha confermato Milanović, specificando che l’idea di Zagabria era quella di inserirvi un passo che facesse riferimento «ai popoli costituenti in Bosnia». Parole che fanno riferimento alla complessa faccenda della riforma elettorale, sostenuta dai croati di Bosnia e dalla Croazia e ancora bloccata, che dovrebbe garantire una migliore rappresentanza politica ai croato-bosniaci ma che viene letta dai critici a Sarajevo come una mossa pensata solo per favorire l’Hdz BiH, il maggior partito dei croati in Bosnia. E i dissidi interni alla Bosnia si sono riverberati a Brdo, con il “no” alla dichiarazione da parte di Sarajevo, che ha rifiutato – secondo fonti croate – la frase «legittima rappresentazione di tutti i popoli costituenti a tutti i livelli di governo», ritenuta fondamentale da Zagabria.
A minare il vertice anche la questione del Kosovo – mai menzionato neppure nelle conclusioni - e le tensioni tra Belgrado e Pristina. Del tema non si è addirittura «neppure parlato, perché sarebbe stato un punto di non ritorno», ha aggiunto Milanović. Più accomodanti e ottimistiche le parole di Pahor, che ha ammesso che già durante i lavori preparatori del vertice «il livello di fiducia» tra i leader balcanici «non era alto» e forse non c’era veramente neppure la volontà di trovare «posizioni comuni». Nondimeno, da Vučić a Djukanović, da Osmani a Pendarovski fino a Begaj, Komsić, Dodik e Dzaferović, tutti i leader si sono presentati all’appello e il vertice «si è concluso con un successo, focalizzandoci su cosa ci unisce, non su cosa ci divide», ha assicurato Pahor. Punti di unione che rappresentano il minimo che i Balcani extra-Ue chiedono al momento e che sono stati riassunti nelle conclusioni finali del vertice. Fra essi, l’auspicio di una «accelerazione del processo d’integrazione» - una questione «geopolitica» ha detto Pahor - e di aiuti concreti dell’Unione alla regione per «far fronte all’incombente crisi economica ed energetica». Il tutto nel quadro della ribadita importanza geopolitica di avere stabilità in tutta la regione, ancor più nel momento in cui la guerra in corso in Ucraina si riflette sull’intera area.
Le urgenze sono anche altre. La prima riguarda la promessa mai mantenuta della Ue di abolire i visti per il Kosovo, passo da fare subito. La seconda è la «concessione dello status di Paese candidato alla Bosnia entro il 2022», che sarebbe osteggiata da Berlino e Amsterdam. E, ha stigmatizzato Milanović, aver fatto quel solo con Kiev e non con Sarajevo è stato «immorale».
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