Per attrarre i giovani nelle aziende il Nord Est deve ripensare il rapporto con il lavoro

I ragazzi  non guardano solo alle paghe (troppo basse): ci sono molte altre priorità, come tempo libero e relazioni. Nel nostro territorio significa rivoluzionare aspetti consolidati

Daniele Marini
Uno dei tanti cartelli che compaiono nelle vetrine di negozi e locali alla ricerca di personale
Uno dei tanti cartelli che compaiono nelle vetrine di negozi e locali alla ricerca di personale

Passeggiata in centro città. Diversi negozi hanno appeso alle vetrine un foglio con scritto “cercasi personale”. Non è diverso il panorama girando nelle zone industriali o lungo le strade di provincia. Anche lì aumentano progressivamente le imprese che appendono cartelli di ricerca sempre più accattivanti: “vuoi entrare a far parte della nostra squadra?”.

Ma uno in particolare ha attratto la mia attenzione: “cercasi personale anche senza esperienza”. Ecco, quel “senza esperienza” racconta palpabilmente delle difficoltà che le aziende – di tutti i settori – stanno incontrando nel reperire personale disponibile, in particolare fra le giovani generazioni.

Il divario fra domanda e offerta di lavoro costituisce una questione fondamentale per la competitività del sistema economico. E il tema della scarsità di personale disponibile risulterà sempre più centrale per le imprese, e lo sarà per diverso tempo per un insieme congiunto di fattori.

Per un verso, c’è un problema strutturale che è diventato troppo tardivamente all’ordine del giorno: il calo demografico, il cui avvio risale agli anni ’80 del secolo scorso e che bellamente abbiamo ignorato. Oggi, e per almeno il prossimo decennio, presenta un conto salato: le giovani generazioni sono (e saranno sempre più) una risorsa scarsa. Una ripresa della natalità dipende da iniziative e politiche, oltre che da un cambiamento culturale, che messe in atto ora produrranno i propri frutti come minimo fra un decennio. Nel frattempo, la soluzione passa nel facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro (alternanza scuola/lavoro, salari più elevati), nell’aumentare l’accesso della componente femminile alle diverse occupazioni (riduzione divario salariale, conciliazione tempi famiglia/lavoro) e nell’integrazione degli immigrati.

Ma, per altro verso, sta avvenendo anche una “rivoluzione carsica” negli orientamenti verso il lavoro, in particolare da parte dei giovani, che i più adulti faticano a comprendere. Di qui, la vulgata sul fatto che “non hanno voglia di lavorare”, di “sacrificarsi”, che “vogliono tutto e subito” e così via.

Detto che i giovani non sono un tutt’uno indistinto, ma presentano molte sfaccettature, una parte consistente fra loro sta ribaltando un modo consolidato di concepire l’attività lavorativa.

Diverse ricerche (Community Research & Analysis) testimoniano del cambiamento profondo nel posto che il lavoro occupa nell’orizzonte dei valori dei giovani. Rimane sicuramente un fattore importante nell’offrire un’identità individuale e un riconoscimento sociale, ma non è l’unico aspetto o quello più importante in assoluto. Altre dimensioni di vita hanno assunto una rilevanza analoga, se non in alcuni casi superiore: il tempo libero, la cura di sé, le amicizie, la formazione personale, gli sport e così via. Ne consegue che, in questa prospettiva, il lavoro si deve coniugare e incastrare – come un puzzle – con altre sfere di vita ritenute importanti soggettivamente.

Il vecchio detto e assai diffuso nel Nord Est testa bassa e lavorare per i giovani ha perso di significato

Questo spiega perché nei colloqui di lavoro è ormai diffusa la risposta “le farò sapere se la sua proposta mi va bene”: ma è il candidato a farla, non l’azienda che seleziona. In qualche misura, rovesciando il potere negoziale. Il fatto che un’azienda possa proporre un lavoro da remoto (dove possibile) o la flessibilità degli orari sono diventate un requisito di base. Lo stipendio è sì una dimensione importante, ma lo sono ancora di più il clima relazionale che si respira sul lavoro, la capacità di coinvolgere i giovani nelle scelte lavorative e negli obiettivi aziendali, l’attenzione ai temi dell’inclusività, la reputazione dell’azienda e così via. Tutti aspetti “qualitativi e immateriali” di un lavoro.

Così, il vecchio detto assai diffuso nel Nord Est “testa bassa e lavorare” ha perso di significato per le giovani generazioni, soprattutto dopo l’esperienza del Covid in cui abbiamo sperimentato che un’altra organizzazione della vita e del lavoro è stata (ed è) possibile.

I giovani sono portatori di una sfida cruciale per le imprese e la società nordestina (e non solo). Per le prime, perché un’azienda che voglia trattenere un giovane capace è propensa a offrire benefit, formazione, orari flessibili, lavoro da remoto, e così via. Ma a fronte di simili iniziative, si ritroverà a far fronte alle rivendicazioni degli altri lavoratori più anziani. Quindi, dovrà ripensare complessivamente l’organizzazione del lavoro, “rivoluzionando” gli assetti consolidati. Per il Nord Est significa rivisitare il cardine su cui aveva costruito il proprio successo: la sua identità “laburista” centrata sul lavoro, nell’identificazione con l’impresa e l’imprenditorialità. Perché il lavoro entra a far parte di un “condominio” dove altri valori assumono la medesima rilevanza.

Siamo così di fronte a un nuovo lessico di cui i giovani sono (più o meno consciamente) portatori che ha ricadute profonde nel mondo del lavoro e delle imprese. È necessario essere consapevoli del cambiamento di approccio e trovare le opportune mediazioni fra le generazioni e con le necessità produttive. Ma, alla fine, resta un interrogativo: le nuove istanze dei giovani sul lavoro sono proprio così sbagliate? 

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