Agenda demografica: tre mosse per il Veneto
Bisogna frenare l’emorragia di giovani, mitigare le conseguenze dell’invecchiamento, favorire ingressi ordinati di nuovi immigrati. Ecco le aree più esposte al cambiamento

La legislatura regionale che sta per iniziare non dovrebbe ignorare lo squilibrio demografico, che minaccia il presente e il futuro dello sviluppo. Oggi nel Veneto vivono 2,8 milioni di persone in età da lavoro (20-64 anni). Se non ci saranno migrazioni, i potenziali lavoratori si ridurranno a 2,5 milioni nel 2035, a 2,1 milioni nel 2045 (35 mila in meno ogni anno per i prossimi vent’anni). Nel contempo, secondo le previsioni dell’Istat, le persone di età 65+, che oggi sono 1,2 milioni, diventeranno 1,5 milioni nel 2035 e 1,65 milioni nel 2045 (23 mila in più ogni anno).
Nei prossimi dieci anni una buona metà dei nuovi pensionati avrà ancora, al massimo, la licenza media inferiore, mentre l’80% dei nuovi lavoratori saranno diplomati o laureati. Quindi, senza migrazioni, sarà possibile sostituire con nuovi lavoratori i neopensionati istruiti, mentre sarà impossibile sostituire quelli meno istruiti. Inoltre, l’emorragia di giovani diplomati e laureati veneti verso l’estero e verso altre regioni (specialmente Emilia Romagna e Lombardia) difficilmente si arresterà.
Le aree più a rischio
Questi cambiamenti investono tutto il Veneto, ma saranno più intensi nelle zone meno ricche e produttive della regione: le province di Rovigo e di Belluno; la bassa pianura delle province di Verona, Vicenza e Padova; le alte colline e le montagne del Vicentino, del Trevigiano e del Veronese. Le giovani famiglie se ne vanno da queste vaste aree del Veneto, dove già oggi la popolazione è molto più vecchia rispetto alla media regionale.
Cambiamenti demografici così forti e repentini non hanno uguali, né nel passato recente né in quello remoto. Al contrario, il boom produttivo veneto del quarantennio 1970-2010 ha potuto giovarsi di una quantità sovrabbondante di nuovi lavoratori autoctoni, cui si sono aggiunti flussi consistenti di lavoratori stranieri. Il sistema produttivo del Veneto – fortemente basato sul manifatturiero, sull’agricoltura ad alta intensità di lavoro, sul turismo e sui servizi – si troverà (e si trova già oggi) in drammatica carenza di lavoratori.
Le domande aperte
Come sarà possibile supplire a questa carenza di capitale umano, evitando una drammatica diminuzione del reddito e della ricchezza? È illusorio pensare che l’automazione e l’intelligenza artificiale possano “sostituire” i lavoratori mancanti. Questo potrà accadere in alcuni settori, ma certamente non in altri: si pensi solo ai servizi alla persona, alle più di 100 mila badanti che vivono nelle case degli anziani veneti. Si può attingere a sacche di lavoro inutilizzato o mal utilizzato, in particolare al lavoro femminile e giovanile, e al lavoro retribuito dei pensionati. Azioni in questo senso sono auspicabili, ma è illusorio pensare che cambiamenti demografici così intensi possano essere totalmente mitigati da un incremento della propensione al lavoro di chi già oggi vive nel Veneto.
Tre obiettivi
È quindi necessario fare tre cose: frenare l’emorragia di giovani, mitigare le conseguenze dell’invecchiamento, favorire ingressi ordinati di nuovi immigrati. Inoltre, vanno messe in atto politiche che aiutino le persone ad avere, senza angoscia, i figli che desiderano: nel 2024 nel Veneto sono nati 30 mila bambini, a fronte dei 48 mila nati nel 2009. Questa tendenza va invertita, in particolare con politiche di conciliazione fra lavoro per il mercato e lavoro per la famiglia.
Insomma, se si vuole frenare il declino, l’agenda demografica dei nuovi consiglieri regionali dovrà essere ricca e densa.
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