Un futuro per la Venezia post-Mose: oltre ai turisti, salviamo l’anima urbana
Le barriere mobili donano altri 70 anni alla città storica. Ma la sua sopravvivenza è legata innanzitutto alla capacità di venire vissuta e di diventare centro di un più grande sistema metropolitano


Abbiamo capito che il Mose ha dato a Venezia ulteriori settant’anni di salvaguardia. Settant’anni per trovare una nuova soluzione che protegga la città dall’inevitabile innalzamento del livello del mare e non solo - eterogenesi dei fini - dalle mareggiate catastrofiche come quelle del 1966 e del 2019 per le quali era stato pensato. Settant’anni per caratterizzare un’altra tappa nella millenaria storia di una città che ha sempre saputo reinventarsi di fronte alle sfide dell’acqua: dalla deviazione dei fiumi alla costruzione dei murazzi, dalle dighe foranee portuali fino al sistema di barriere mobili, il Mose appunto, che oggi la difende.
Ma mentre ingegneri e tecnici lavorano per salvare la “Venezia delle pietre”, c’è un’altra domanda inquietante alla quale dobbiamo rispondere: tra settant'anni, quando avremo trovato la soluzione post-Mose, ci sarà ancora una “Venezia della gente”, una comunità locale, della quale occuparci?
È una domanda che ci si era posti anche cinquanta anni fa. E alla quale si era risposto dichiarando solennemente «di preminente interesse nazionale» sia la salvaguardia fisica di Venezia e della sua laguna sia la sua vitalità socioeconomica. Impegno, quest’ultimo, non rispettato.
Tutti presi dalle travagliate vicende del Mose, non ci siamo colpevolmente preoccupati del fatto che, mentre ci preparavamo ad alzare le barriere contro il mare, un altro tipo di marea stava svuotando la città dall'interno. E - questo è il punto - ben oltre il fenomeno demografico dell’esodo dei residenti, già ampiamente documentato e discusso. Il vero dramma, passato sotto silenzio è stata l’emorragia delle attività economiche terziarie superiori e direzionali, quelle che per secoli hanno fatto di Venezia una capitale.
Banche, assicurazioni, borsa, sedi di grandi aziende, centri decisionali: tutto quello che è alla radice del tessuto nervoso di una città moderna ha progressivamente abbandonato il centro storico.
Le politiche residenziali messe in campo contro il calo dei residenti si sono rivelate palliativi temporanei, perché il fenomeno aveva radici altrove: nel mercato del lavoro e nel sistema di traporto translagunare.
È poi su questo andamento di fondo che si è sovrapposto, con la forza di un’onda anomala, il boom del turismo di massa. Palazzi storici convertiti in alberghi, officine che hanno lasciati il posto a ristoranti, appartamenti trasformati, più recentemente, in affitti brevi per turisti. Di fronte al declino delle preziose attività terziarie e direzionali di un tempo, e all’assenza di alternative concrete, il turismo ha offerto rendite immediate e apparentemente sicure. Ma come ogni monocoltura economica, anche questa ha mostrato rapidamente i suoi limiti e le sue contraddizioni.
La domanda da porci oggi - e stavolta per rispondervi con urgenza - è allora se Venezia storica possa sopravvivere al turismo di massa mantenendo i tratti di una comunità urbana.
Se, contenendo il turismo entro limiti ottimali, possa evolvere verso qualcosa di più complesso e duraturo di una destinazione turistica, pur di inarrivabile eccellenza.
Le risposte positive ci sono. Ma, per renderle effettive, occorre che Venezia storica si riconosca, e agisca, come parte di un sistema urbano più grande - che fortunatamente, sottotraccia, si comporta già oggi come tale nel quadrilatero Padova-Castelfranco Veneto-Treviso-Mestre (Venezia)-Padova -, aumenti le possibilità d’interazione con le parti di terraferma con trasporti che superino in modo più efficiente la cesura lagunare; e trovi un ruolo che complementi quello culturale e di destinazione turistica.
Un aiuto può venire dal fatto che anche l’Italia, più o meno consapevolmente, sta entrando nell’economia della conoscenza: Venezia potrebbe giocare un ruolo di primo piano in questa transizione. Non si tratta dunque di tornare al passato – la Serenissima non tornerà –, non si tratta di immaginare di recuperare funzioni “capitali” che oggi condivide più con Padova che con Mestre, ma di immaginare un futuro in cui Venezia sia nuovamente un nodo strategico, questa volta delle reti globali dell’innovazione e del sapere.
Il patrimonio artistico e culturale della città non sarebbe più solo un’attrazione turistica, ma diventerebbe componente rara di un ambiente stimolante per creativi, ricercatori, innovatori. I palazzi storici potrebbero ospitare non soli turisti, ma centri di ricerca, startup innovative, sedi di organizzazioni scientifiche internazionali.
La Venezia storica post-Mose può dunque diventare anche una Venezia post-overtourism; e non solo contenendone i flussi turistici e regolamentandoli meglio, operazioni pur necessarie. Si tratta di immaginare un modello di sviluppo completamente diverso.
Una Venezia post-overtourism che non è una Venezia senza turisti, ma una Venezia che non dipende esclusivamente dal turismo.
Una città storica che recupera la sua complessità funzionale, come parte di un più grande sistema urbano metropolitano che trova nella sua dimensione di scala la fonte della sua forza generatrice e della sua solidarietà sociale. Una Venezia storica che ritrova la sua capacità di produrre ricchezza in settori diversificati sprigionando la sua forza attrattiva per chi vuole viverci e lavorarci, non solo visitarla.
Il Mose ha regalato a Venezia settant'anni per trovare la prossima soluzione tecnica al problema dell’acqua alta. Molto meno di settant’anni è invece il tempo massimo a disposizione per risolvere il problema dell’overtourism e della monofunzionalità turistica della città. Salvare una città significa sempre salvare insieme le pietre e gli uomini.
Una Venezia storica che tra settant’anni fosse riuscita a difendersi dal mare, ma avesse perso definitivamente la sua anima urbana viva e produttiva rappresenterebbe una vittoria di Pirro.
La tecnologia che permetterà di proteggere Venezia dalle acque del futuro va attesa con pazienza, contando sulla scienza e sull’intelligenza collettiva di Venezia, dell’Italia e del mondo.
Da cercare con altrettanto zelo è la tecnologia sociale, economica e culturale, necessaria per fare di Venezia storica la parte preziosa di una grande città del futuro. La sfida non è più solo ingegneristica: è politica, economica, sociale.
Una sfida per il momento raccolta dalle accademie, le università Iuav e Ca’ Foscari e ancor più puntualmente dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, che del futuro di Venezia si occupa dai tempi di Napoleone, e dalla Fondazione Venezia Capitale Mondiale della Sostenibilità che da pochi anni è venuta ad arricchire il patrimonio innovativo veneziano.
Una sfida che attende poi di essere raccolta da chi ha il potere/dovere istituzionale di rispondervi.
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