Vendere all’estero non è l’unica metrica della crescita

Un sistema industriale maturo non cresce solo facendo evolvere le aziende consolidate, ma stimolando anche la gemmazione di nuove imprese capaci di inserirsi in nicchie tecnologiche emergenti

Giulio Buciuni*, Alberto Baban**

 

 

I dati Istat sulle esportazioni del primo semestre 2025 fotografano un Nord Est in difficoltà, con cali diffusi e rare eccezioni, mentre la Lombardia cresce grazie al traino del farmaceutico. Sono numeri analizzati altrove in questo stesso settimanale, ma qui interessano soprattutto come segnale di una transizione industriale che non si può leggere solo in chiave congiunturale.

Più che di tendenze lineari, l’attuale fase dell’internazionalizzazione assomiglia a un flipper. Mercati che fino a ieri garantivano stabilità, come la Francia, oggi mostrano segni di indebolimento. Altri, come la Polonia che aveva fatto da spalla alla Germania, rivelano fragilità inattese. Gli emergenti che sembrano promettenti si saturano a una velocità sorprendente.

L’India viene salutata come la nuova Cina, ma lo è soprattutto nei segmenti B2B e quindi in funzioni della catena del valore meno remunerative rispetto al mercato consumer cinese, che garantiva margini elevati nel lusso. È in questo contesto che emerge il tema del fatturato povero, legato allo sforzo continuo di trovare nuovi sbocchi, che definisce bene la nuova fase dell’internazionalizzazione delle nostre imprese.

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Oltre ai dati secchi delle esportazioni dobbiamo allenarci ad alzare lo sguardo e a capire come sta cambiando lo scenario globale. La vera domanda non è solo quanto esportiamo, ma quale ruolo occupano le nostre imprese dentro catene globali sempre più complesse e fluide.

Catene che rimangono viscose ai territori, perché i cluster locali restano fondamentali, ma che sanno anche muoversi e riconfigurarsi sotto la spinta della tecnologia e della geopolitica. È il caso del friendshoring, con cui le attività produttive vengono riallocate in Paesi considerati politicamente amici per ridurre il rischio di trasferimento tecnologico che ha alimentato l’ascesa di nuovi competitori come la Cina. O ancora l’esempio delle auto elettriche, che hanno ridisegnato in pochi anni le catene globali dell’automotive spostando valore verso chi controlla batterie e software.

In questo quadro diventa centrale la distinzione tra “quanto” e “cosa” esportiamo. Esportare componentistica standard non ha lo stesso peso che esportare macchinari ad alta intensità tecnologica o prodotti di design. L’export misura il fatturato, mentre è il valore aggiunto a dirci quanta ricchezza resta sul territorio. Se le funzioni presidiate dalle imprese non generano margini sufficienti per alimentare investimenti in tecnologia e capitale umano, siamo davanti a quella che la letteratura sulle Global Value Chains definisce “low road”. Una traiettoria povera, che produce redditività insufficiente e impedisce upgrading e differenziazione.

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È il rischio tipico di un capitalismo di fornitura che caratterizza buona parte del Nord Est, competitivo sui volumi ma con margini ridotti e scarse possibilità di reinvestire. Questo non significa che manchino casi di fornitura intelligente ad alto valore aggiunto, capaci di presidiare funzioni avanzate. Ma sono ancora minoritari.

In un’economia sempre più capital intensive la piccola dimensione diventa un vincolo strutturale. Non si tratta di crescere per vanità statistica, ma di dotarsi delle risorse necessarie per presidiare funzioni ad alto valore. Solo aziende più solide, con capitale accumulato e capacità di attrarre finanza esterna, possono affrontare piani di ricerca pluriennali, implementare automazione avanzata, sostenere reti commerciali globali e integrare al proprio interno competenze altamente qualificate. Senza questa scala il rischio è rimanere intrappolati nella “low road”, costretti a competere sul prezzo e incapaci di generare margini adeguati a garantire investimenti futuri.

Accanto all’evoluzione delle aziende esistenti serve inoltre una nuova generazione di imprese ad alto contenuto tecnologico. Non si tratta di sostituire il tessuto produttivo consolidato, ma di affiancarlo e rafforzarlo. Un sistema industriale maturo non cresce solo facendo evolvere le aziende consolidate, ma stimolando anche la gemmazione di nuove imprese capaci di inserirsi in nicchie tecnologiche emergenti, di portare sul territorio saperi e pratiche organizzative diverse e di contaminare l’ecosistema con logiche di crescita più aperte e internazionali. È da questo equilibrio fra upgrading interno delle imprese storiche e nascita di nuove realtà che passa la possibilità di una nuova epoca di sviluppo industriale per il Nord Est.

È proprio a partire da questi ragionamenti e superando l’export come unica metrica per valutare la tenuta dell’internazionalizzazione che la Fondazione Nord Est intende avviare una nuova linea di ricerca. L’obiettivo è leggere a grana fine i meccanismi che regolano le catene globali del valore e raccontare i casi virtuosi di imprese che, partendo da condizioni di subfornitura e di subalternità rispetto a buyer globali, hanno saputo intraprendere percorsi di upgrading guadagnando margini, autonomia e capacità di innovazione. Perché solo così il Nord Est potrà affrontare la nuova fase della globalizzazione non come periferia industriale ma come attore consapevole e competitivo.

 

*Trinity College, Dublino

**Presidentedi Fondazione Nord Est

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