Vittime del terrorismo, rispetto e verità
Il giorno del ricordo non serve solo per commemorare, ma anche per riflettere sul da farsi. Non è un bel segnale l’assenza di una pianificazione condivisa delle manifestazioni del 9 maggio

Sono trascorsi quasi cinquant’anni da quel 9 maggio 1978 quando Aldo Moro, all’epoca presidente della Democrazia cristiana, venne trovato nel bagagliaio di una Renault 4. Erano trascorsi 55 giorni da quando un commando delle Brigate rosse l’aveva rapito e trucidato la scorta.
Ve ne sono voluti trenta, di anni, prima che lo Stato italiano decidesse di istituire il giorno della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi, secondo la legge del 4 maggio 2007, numero 56.
Altri quattro anni sarebbero serviti perché l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, inserisse l’esplicito riferimento anche alle vittime italiane del terrorismo arabo-palestinese che, come il terrorismo nero e rosso, ha funestato il nostro Paese sino agli anni Ottanta.
Essere uccisi per una ragione politica non rende l’atto meno grave né meno doloroso. Se vogliamo parlare di giustizia riparativa è necessario, oltre alla punizione dell’autore del reato, che si tenti di risanare il legame con la società spezzato dall’evento criminale. Necessariamente ciò deve passare per la tutela delle vittime. Ma quale tutela delle vittime può esservi se il nostro Paese non è in grado di costruire una memoria condivisa delle stragi e del terrorismo?
Il giorno del ricordo non serve solo per commemorare, ma anche per riflettere sul da farsi. Non è un bel segnale l’assenza di una pianificazione condivisa delle manifestazioni del 9 maggio. Ieri, parenti e le associazioni delle vittime hanno lamentato la mancanza di organizzazione condivisa con le istituzioni e una parzialità nella riflessione sul quadro complessivo delle matrici della violenza politica degli anni ’70 e ’80.
Se si vuole che i cittadini abbiano fiducia nella democrazia e nelle sue istituzioni (e se vogliamo che l’abbiano anche i nostri figli), è necessario che lo Stato – nelle sue varie forme, anche locali – si renda promotore di una riflessione condivisa.
Troppo a lungo la contestazione delle verità giudiziarie, anche giunte alla fine del proprio iter, ha offuscato la memoria e confuso le menti.
Troppo a lungo ci si è attardati su ricostruzioni dietrologiche attraenti e semplificatorie, che ambiscono a spiegare tutto senza in realtà spiegare niente, amplificate dalle casse di risonanze dei mass media. Continuare a proporle senza analisi critica non solo è irresponsabile, ma è anche nocivo: per le vittime, per i cittadini, per le istituzioni.
Ma qualcosa si può e si deve fare. C’è una cosa che si chiama ricerca storica: è basata su una metodologia scientifica e anche se non promette verità assolute, il suo compito è aiutare a capire i contesti, le ragioni e i percorsi che hanno condotto il nostro Paese sull’orlo del baratro della violenza.
Se le istituzioni decidessero di fornire il sostegno necessario a programmi di ricerca strutturati atti a ricostruire le dinamiche del terrorismo e la risposta (o il coinvolgimento) da parte dello Stato, potremmo iniziare a ragionare su cosa è successo ed evitare che riaccada di nuovo. Se poi si decidesse di rendere disponibile la documentazione archivistica che ancora non lo è, saremmo veramente a buon punto. La verifica è rimandata al prossimo 9 maggio.
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