Il turismo pretende soluzioni: queste, ad esempio
Stop ai branchi sospinti nei soliti posti da travel blogger, influencer e sedicenti guide turistiche. Trasferire il cittadino metropolitano ad alta quota e offrirgli tutto quanto già trova in città è una scelta sciagurata: giusto regolamentare


«Bisogna avere la coscienza che non si può andare ovunque, magari in auto o in funivia. Dove si arriva a piedi, bene, altrimenti stop» dice il presidente del CAI Veneto, Francesco Abbruscato. E si fa fatica a dargli torto, perché tutti vediamo cosa sta accadendo. In montagna, al mare, nelle città d’arte.
L’overtourism è un fenomeno globale ma, ovviamente, impatta in modo diverso - molto diverso - a seconda dei flussi e dei mercati. L’Italia, piccola e ricca, dovrebbe poter vivere di turismo senza esserne seppellita.
La montagna è parte del problema, e riportarla ai tempi eroici delle vette per pochi non ci salverà: è irrealistico, impraticabile, antieconomico. I buoi sono scappati (anzi, i turisti con le Crocs sono saliti) da anni. Così come i tavolacci dei rifugi si sono in parte trasformati in suite, le cucine spartane in ristoranti stellati, i sentieri tosti in carrozzabili livellate, e avanti di questo passo.
C’è un ambientalismo trasversale che propone soluzioni dritte: obbligo di prenotazione, numero chiuso, pedaggio. Sembra di rimbalzare su Venezia, ma è ovvio che la questione sempre quella è.
Poi c’è un mondo più radical-filosofico che predica una restaurazione tout court, e il senso è questo: abbiamo sbagliato, torniamo indietro finché siamo in tempo. Ma ce n’è anche un terzo, per il quale la questione è un fatto culturale, molto più che organizzativo o economico.
E va a braccetto con il marketing: lo sa bene la Fondazione Unesco che ha provato a diramare nuove linee guida. Ad esempio: fai conoscere località secondarie. Oppure: destagionalizza, perché quelle file indiane di turisti selfari sulle Tre Cime vanno lì per timbrare il cartellino (fotografico), perché “almeno una volta nella vita”. Ma un conto è l’ammassamento luglio-agosto, altra cosa è diluire i flussi tra maggio e novembre.
Primo punto: basta assecondare i branchi sospinti nei soliti posti da travel blogger, influencer e sedicenti guide turistiche: la comunicazione ha un ruolo decisivo. Se volete pagarli, care Dmo, mandateli alla scoperta (autentica) di posti nuovi.
Secondo punto: trasferire il milanese imbruttito (per dire) ad alta quota e offrirgli tutto quanto già trova in città, unito a una finta promessa di relax, pace e silenzio, è una scelta sciagurata che alla lunga non potrà non avere un effetto boomerang.
Terzo punto: ha senso regolamentare? Certo che lo ha; discutiamo il “come”, non il “se”. Mi diceva un’amica: ti sei reso conto che il turismo è diventato una cosa per certi versi terrificante?
Sembrava una boutade, però parliamone: fare le sardine è meglio che programmare e “persino” pagare? Un po’ come i gruppi d’acquisto, adesso ci sono i gruppi del turismo lento e «altrove». Loro se la godono, magari perché le Tre Cime le hanno già viste. O perché non devono postare sui social, come motivazione primaria nella scelta della location.
Farsi un selfie è un po’ come guardarsi allo specchio: e voi che overturisti siete? Solo risposte oneste.
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