Un autogol che favorisce la Cina
Il ritiro annunciato dagli Stati Uniti dall’Unesco segna un nuovo passo nell’isolazionismo trumpiano. Dietro il populismo anti-Onu, si nasconde un vuoto che Pechino è pronta a colmare con cultura e diplomazia


È una questione di coerenza cieca, quella di Donald Trump, applicata senza guardare oltre il giardino del consenso repubblicano, e rifiutando di considerare le conseguenze al di là dell’immediato.
Il presidente americano ha annunciato l’addio all'Unesco da fine 2026, come già fatto nel 2017, contestando le politiche dell’Organizzazione Onu per Educazione, Scienza e Cultura in materia di diversità, equità e inclusione, nonché «i pregiudizi pro-palestinesi e pro-Cina». Sono accuse che non stanno in piedi, ma a lui non interessa: conta solo la promessa agli elettori di archiviare le “guerre inutili” e le agenzie internazionali presunte “superflue”. Per questo è uscito dall’Oms (Sanità) e dagli Accordi per il Clima. Vuol far vedere che non spreca i soldi dei contribuenti, che può fare senza gli alleati e amici di sempre. È populismo di bassa lega, non funzionerà. Se si rinuncia alla diplomazia della conoscenza, l’orizzonte diventa nero. E quando finisce il dialogo, in genere parlano le armi.
Colpisce che gli Stati Uniti arretrino in un terreno - l’egemonia culturale - che è sempre stato il campo di casa. Qui hanno dominato quasi senza rivali nel secondo dopoguerra, esportando fumetti e film, rock’n’roll e musical, quintali di fantastica letteratura, in un infinito D-Day mediatico con cui sono riusciti a imporre generi, gusti e stili di vita in modo dirompente e astuto.
Richard Nixon (repubblicano come Trump) decise di giocarsi la carta dell’intrattenimento con la Cina di Mao Zedong nel 1971, organizzando una partita di pingpong: gli esiti furono controversi, ma almeno si ebbe la prima visita di un presidente americano nella capitale dell’ex Celeste Impero. Parole contro le tensioni, un ottimo affare.
Per rendere il suo Paese grande di nuovo, Trump è invece orientato a isolarlo. Quel che non sembra considerare, o se lo fa sottovaluta l’incognita, è che quando si libera un posto, è facile trovare chi sia disposto a occuparlo. Pechino, ad esempio, rivendica sempre più siti Unesco, per prestigio internazionale e interno (vuole il bollino sul Xinjiang per dimostrare che gli odiati uiguri sono cosa loro). Brandisce la cultura per imporsi. Mentre gli Usa si ritirano, i cinesi aprono istituti Confucio senza badare a spese. L’offensiva in Africa è massiccia, vogliono sostituirsi a chi – dicono – «vi ha schiavizzati, deportati e sfruttati per secoli». Ovvero l’Occidente.
È facile dire male delle agenzie Onu, prendersela con gli alti stipendi dei funzionari e metterne in dubbio i risultati. Come sempre in questi casi, bisogna controllare che ognuno si guadagni lo stipendio come deve. Indebolire l’Unesco e le sorelle vorrebbe però dire rinunciare a un’opportunità, a un luogo di incontro e scontro in cui perlomeno ci si conosce, una piazza dove i palestinesi hanno sia doveri che diritti, e i cinesi la voce che meritano.
Nel momento in cui si sta sgretolando il dialogo interculturale globale, e l’Onu sembra un condominio di sordi, c’è chi trova naturale fomentare l’odio contro chi non è “del quartiere” e governare sulla paura che deriva dallo “straniero”. La guerra al multilateralismo di Trump pone le basi per l’incancrenimento delle relazionali planetarie. Non renderà l’America più forte; indebolirà il mondo occidentale.
I cinesi, con cui sarebbe saggio avere relazioni solide e chiare, non aspettano altro. Sanno (e non solo loro) che se il gioco si farà duro, il vecchio ordine atlantico sarà quello che rischia di più. —
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