Regeni e Trentini, quanta forza in quelle due mamme
Una comunicazione da madre a madre, che ci solletica a pensare se la politica saprà riconoscere nella sostanza, e non solo con la retorica, la forza del cordone ombelicale o se invece prevarranno le insondabili e inafferrabili ragioni di Stato


Tutti i mammiferi con placenta hanno a che vedere con il cordone ombelicale. Madre e figlio sono connessi. E questo legame biologico, frequentemente, non si interrompe all’atto del nascere, ma rimane, quasi invisibile, per tutta la vita.
Non sorprendono, quindi, le manifestazioni di questo attaccamento materno in moltissimi momenti del vivere civile: accudimento eroico dei figli anche quando abbiano patologie gravi, difesa dei propri diritti genitoriali, battaglie per la tutela del territorio (ricordo qui soltanto le mamme contro i Pfas) cioè per la salvaguardia della salute.
Non che i padri, quelli responsabili, non abbiano cura dei figli. Però nel comportamento materno c’è che quel fuoco che richiama il cordone ombelicale. Va da sé che alle volte può essere eccessivo, sino a sconfinare in comportamenti iperprottettivi, esattamente come la disattenzione paterna può condurre alla distanza assoluta dai figli.
Questo comportamento materno può assumere un valore simbolico quando si manifesti come una ostinata e pubblica battaglia contro qualcosa che abbia colpito i propri figli. Nessuno potrà togliere dai libri di storia l’epopea delle donne argentine di plaza de Mayo. Accade cioè, pur in contesti assai diversi, che una donna si faccia carico della difesa del proprio figlio e, nel fare questo, si assuma tutto il carico delle scelte da lui compiute, per le quali possa aver subito delle ritorsioni anche gravissime.
Lo abbiamo vissuto con la tragica morte di Giulio Regeni e lo stiamo rivivendo con le vicissitudini di Alberto Trentini. Non stiamo parlando di cittadini italiani che si siano recati all’estero per vacanze o viaggi avventura e, magari, incappati in qualche inciampo con la giustizia del Paese ospitante.
Capita, e si apre una soggettiva fase legale e spesso detentiva che, attualmente, colpisce oltre 2000 cittadini italiani, la maggior parte detenuta in paesi europei. 367 sono incarcerati negli altri continenti.
Ma Alberto Trentini non era in Venezuela, come Giulio Regeni in Egitto, per rispondere a un bisogno di vedere altri paesaggi. Alberto Trentini è un operatore umanitario, così come Giulio Regeni era un dottorando della Cambridge University: connazionali di cui dovremmo andare fieri. Sono incappati in quel rimescolio fangoso che si estende dietro le istituzioni di paesi non democratici.
Alberto Trentini è rinchiuso nelle carceri venezuelane dal 15 novembre scorso, senza alcuna motivazione precisa. E nell’assenza di risposte, e di un chiaro impegno istituzionale del nostro Paese per affrontare le dinamiche della detenzione, la madre (ancora una di loro!) si è incendiata perché la vicenda non finisca nell’infinita diluzione dei giochi di relazione tra Stati, lì dove tutto vale tranne le reali condizioni della persona.
Armanda Trentini ha cercato, e trovato, solidarietà (non a caso ha avuto accanto anche la madre di Giulio Regeni) ed è arrivata a chiedere alla presidente del Consiglio di rompere il silenzio che pesa sulla situazione del figlio. Sapendo che chiamare direttamente in causa un governo non attira, automaticamente, le sue simpatie.
Tuttavia si è stabilita una comunicazione da madre a madre: è questo il momento simbolico. Che ci solletica a pensare se la politica saprà riconoscere nella sostanza, e non solo con la retorica, la forza del cordone ombelicale o se invece prevarranno le insondabili e inafferrabili, ragioni di Stato.
Noi vorremmo scommettere sul cordone ombelicale.
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