Referendum, Schlein rischia l’harakiri

La mossa di cavalcare i referendum con Avs e 5s, se fallisse la sfida del quorum, potrebbe rivelarsi un regalo a una destra che non farà lo sforzo di impelagarsi in campagna referendaria, avendo optato per il celebre «andate al mare»

Carlo BertiniCarlo Bertini
La segretaria del Pd Elly Schlein
La segretaria del Pd Elly Schlein

A voler essere ottimisti si può definire un azzardo ben studiato, a voler essere realisti una sorta di harakiri, a beneficio di Giorgia Meloni, quello premeditato da Elly Schlein con la sua campagna per i referendum dell’8 e 9 giugno.

Azzardo ben studiato poiché, se la chiamata alle urne sui cinque quesiti raggiungesse il quorum, la sfida al governo si potrebbe considerare stravinta, con annessi e connessi del caso: leadership rafforzata, vittoria ai punti su Giuseppe Conte rimasto ai margini del campo. E soffocamento del dissenso di quei riformisti dem che non condividono la guerra di religione contro il jobs act, da loro stessi votato nell’era Renzi.

Così come liberal e riformisti dem non gradiscono una corsa sulla scia della Cgil, col Pd a fare da portatore d’acqua a un Maurizio Landini di cui molti si chiedono quali siano le reali intenzioni, se cioè voglia forse tentare la scalata al partito.

Ma la mossa di cavalcare i referendum con Avs e 5s, se fallisse la sfida di portare il 50% più uno degli elettori alle urne, potrebbe rivelarsi un regalo a una destra che non farà lo sforzo di impelagarsi in campagna referendaria, avendo optato per il celebre «andate al mare».

La speranza di un esito win-win, derivante dal poter dire «abbiamo vinto» se il quorum fosse raggiunto, o in caso contrario «ha perso la Cgil», non pare una strategia degna di una leader che vuole conquistarsi una caratura. Così come provare a spacciare un’eventuale sconfitta per una vittoria, se i votanti superassero il 30% degli aventi diritto: scavalcando il 26% del centrodestra alla chiamata del 2022, il “fronte di liberazione da Meloni” dimostrerebbe di potersela giocare nella madre delle battaglie, le politiche 2027, questa la convinzione di Elly. Volo pindarico difficile pure da spiegare.

Ma per un effetto di rovesciamento, il trionfo dell’astensione si tradurrebbe in un via libera al jobs act e in uno stop alla cittadinanza facile: con un danno ai lavoratori, un indebolimento della battaglia per un salario minimo e una ferita alle speranze delle seconde e terze generazioni di immigrati.

E se si entra nel merito, quattro quesiti sono sul lavoro e anche una vittoria non produrrebbe un ritorno di quel famoso articolo 18 eretto dallo stato sociale 55 anni fa a protezione dei licenziamenti. Battendosi per abolire il jobs act, Schlein mette in posizione difficile il gruppo dirigente del Pd che a suo tempo lo votò (tanto che lo stesso Renzi chiama in causa gli ex ministri Orlando e Franceschini).

Confermando la sua ostilità verso i “vecchi maschi” del partito, come il temuto Paolo Gentiloni, testimoni di un modo ormai sorpassato di fare politica, a sentire i discorsi del suo stretto giro. Quindi una mossa per regolare i conti che suona quasi come un invito subliminale a uscire dal Pd, che i riformisti dem non coglieranno, anche perché personalità importanti come Bonaccini, Gori, Nardella, Decaro, formano il grosso della nuova squadra di europarlamentari.

Ma la disputa non sarà indolore e lascerà il Pd infiacchito tre mesi prima delle regionali: quelle sì in grado di mettere in un angolo Meloni, grazie al calendario che porta in dote ben 4 regioni su 5 (tolto il Veneto, Puglia, Campania, Toscana, Marche) in cui il centrosinistra potrebbe vincere e rafforzarsi. Sempre che il peccato di hybris della giovane segretaria dem, non produca un prepartita perdente che possa ringalluzzire la destra. 

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