L’indecisione della politica sul fine vita non è giustificabile
Se i sondaggi registrano una larga approvazione del suicidio assistito, la politica sembra incapace di pronunciarsi

Ricapitoliamo. Il Governo ha deciso che la Regione non può decidere, sulla base di quel che la Corte ha deciso, che la decisione spetti al cittadino. Vi siete persi? Precisiamo allora l’oggetto: il fine vita. La notizia, invece, riguarda la scelta dell’esecutivo di ricorrere contro la legge in materia varata, qualche mese fa, in Toscana.
Ulteriore premessa è che le indecisioni, quando in gioco ci sono la vita, la morte – e spesso, tra l’una e l’altra, tanta, tanta sofferenza – sono del tutto legittime. Numerosissimi i dilemmi etici che interrogano le coscienze, le implicazioni pratiche e le specificità dei singoli casi. Si spiega anche così l’incapacità di pronunciarsi della politica, che, per una volta, mette da parte il riflesso incondizionato di rincorrere l’opinione pubblica.
Visto che i sondaggi registrano da tempo una larga approvazione al suicidio assistito, nel momento in cui agli intervistati vengono suggerite alcune condizioni chiave: diagnosi senza speranze, sofferenza fisica, necessità di trattamenti vitali, capacità di decisione autonoma del malato.
Il vuoto della regolamentazione nazionale è stato riempito, anzitutto, da una sentenza della Corte costituzionale del 2019, che fissa i paletti appena ricordati. Nel perimetro disegnato dalla Consulta si sono mosse quasi tutte le Regioni, nel tentativo di normare situazioni che, comunque, “esistono”. Solo la Toscana, però, era arrivata ad approvare la propria legge.
Ora il governo vorrebbe bloccarla. È una scelta che colpisce. Pur tenendo conto delle inevitabili (comunque tristi) schermaglie ideologiche. Visto che la legge arrivava da una regione di sinistra. Ma un analogo provvedimento era stato sostenuto in Veneto da Luca Zaia, affossato poi dalle divisioni dentro maggioranza e opposizioni.
Colpisce che le preoccupazioni su una regolamentazione “arlecchino”, con norme eterogenee di regione in regione, arrivino da una maggioranza che, almeno in linea teorica, promuove l’autonomia. Colpisce che a impugnare la legge, perpetuando una condizione di vuoto e indecisione, sia un governo che si vorrebbe forte e decisionista.
Colpisce, ancora, che la rivendicazione delle competenze esclusive dello Stato centrale nasconda, di fatto, la volontà di rimettere la testa sotto la sabbia. Che il preteso primato della politica rispetto alle ingerenze del potere giudiziario si traduca, di fatto, nella scelta di lasciare ai giudici la grana di sciogliere i nodi più intricati, attraverso un ruolo di supplenza che colma inadempienze e tic ideologici dei partiti.
L’incapacità di definire una regolamentazione nazionale che metta ordine in una materia così delicata, stabilendo su cosa e in quali condizioni sia possibile decidere, per le persone, finisce ineluttabilmente per lasciare queste scelte ad altri. Se non alle regioni, addirittura alle singole aziende sanitarie, ai singoli ospedali. Alla competenza e al buon senso di medici e infermieri, che, sebbene in una certa misura necessari e inevitabili, non possono essere esercitati nel “vuoto”.
L’indecisione della politica, così, si spiega ma non si giustifica. Anzi, è decisamente ingiustificabile.
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