Malessere giovanile in crescita: violenza, disagio e assenza di supporto in Veneto e Nord Est
La carenza di servizi e il vuoto educativo aggravano una situazione già critica, con oltre 300 mila ragazzi coinvolti in episodi di aggressione e un incremento del 571% nei disturbi alimentari.


Li stiamo perdendo. La classica frase choc da situazione clinica esce dalle sale operatorie per estendersi a un’intera categoria sociale, esposta a rischio estremo: i giovani. È ormai quotidiana la testimonianza delle cronache che propongono vicende di risse, aggressioni, violenze, pestaggi, minacce, maltrattamenti, soprusi; ancora più vasto è il sommerso, che a tratti arriva in un superficie, del mondo del disagio: depressione, autolesionismo, autismo, deficit dell’attenzione, disturbi del linguaggio, del comportamento, dell’alimentazione; fino a spingersi a tentati suicidi. Ma anche chi sta bene e sa gestirsi, si sente stretto in questa società. E risponde andandosene per sempre.
Inquietanti, o almeno dovrebbero esserlo, i dati del malessere. Una ricerca del Cnr su 20 mila studenti tra i 15 e i 19 anni di 250 scuole segnala che 4 su 10 hanno preso parte almeno una volta a una rissa o una violenza di gruppo; proiettato sul complesso della popolazione, significa 300 mila adolescenti. Con un Nord Est allineato alla media: il 36% in Veneto, il 39 in Fvg; con punte estreme che arrivano all’uso di un’arma nel 2,5% dei casi tra i ragazzi veneti, nel 3 per i friul-giuliani. D’altra parte, anche senza usarla, portarsela dietro è diventata un’abitudine diffusa: agli ingressi di discoteche e pub, i buttafuori ogni sera sequestrano coltelli a raffica. La scuola è in primo piano in questa guerriglia continua: le aggressioni ai docenti sono triplicate negli ultimi anni.
Ancora più urticanti sono i dati relativi al disagio giovanile, proposti dal Censis. Gli episodi di autolesionismo dal 2020 sono saliti del 6% tra i ragazzi, e del 17 tra le ragazze; i disturbi alimentari hanno avuto un incremento addirittura del 571%.
Tra i 18 e i 25 anni, una persona su due arriva a forme di depressione; quelle prese in carico dai servizi manifestano ansia ossessiva, paura del fallimento, incertezza del futuro: sindrome che riguarda due milioni di adolescenti. Per chi aggredisce e per chi soffre, a ben vedere, la matrice è comune: uno stato d’animo che genera violenza nel primo caso contro gli altri, nel secondo verso se stessi.
I servizi pubblici sono con le spalle al muro di fronte al fenomeno che sta esplodendo: mancano uomini, risorse, preparazione, strutture. Anche in questo campo, come in tanti altri, la politica latita dolosamente: ci sono linee-guida adottate già nel 2019 poco applicate; i finanziamenti sono inadeguati; i posti di degenza nei centri di neuropsichiatria infantile sono 400, ma ne occorrerebbero 700. Col risultato che molti, troppi bambini e ragazzi vengono accolti e seguiti nei reparti per adulti.
Sappiamo il perché di questa drammatica deriva. Fragilità nelle relazioni; sovrapposizione tra realtà effettiva e virtuale; paura delle frustrazioni; sollecitazioni pressanti a essere competitivi; bisogno di omologazione; abuso dei social; messaggi e stili di vita fuorvianti trasmessi dal mondo adulto.
C’è soprattutto una micidiale assenza di troppi padri, professori, educatori autorevoli. Col risultato di aver dato vita a una generazione orfana; che invece andrebbe educata da subito a interiorizzare il senso del limite, a non doversi per forza sentire protagonisti per essere qualcuno, a scoprire il valore della sconfitta e della fragilità come spinte per crescere. Occorre far capire ai ragazzi che rovinando la vita di altri distruggono la propria.
A suo tempo abbiamo liquidato i giovani con l’etichetta di “generazione invisibile”: è stata tale per anni, perché noi non la sapevamo né guardare né ascoltare; ora comincia a farsi vedere. E sentire. Ma in troppi continuiamo a non capire. Eppure basterebbe andare a rileggersi le poche righe che una quindicenne veneta lasciò qualche anno fa ai suoi prima di togliersi la vita: mi avete dato tutto, tranne quello che mi serviva davvero.
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