La violenza di Netanyahu a Gaza oltre il punto di non ritorno: è ora che l’Occidente si muova

Una situazione che ricorda la Stalingrado 1942-’43 o Berlino 1945, con la stremata popolazione superstite costretta a vivere e vagare tra le macerie in condizioni difficilissime, nel tentativo di sopravvivere non solo alle bombe ma anche alla fame, usata come un arma che si abbatte soprattutto sui più deboli

Renzo Guolo

Cresce anche in Occidente l’insofferenza per la condotta di Israele. Impensabili, sino a poco tempo fa, posizioni come quelle di Francia, Gran Bretagna e Canada, che definiscono «scandalose» le azioni dello Stato ebraico a Gaza, o l’intenzione Ue di riesaminare gli accordi di associazione con Tel Aviv.

Posizioni che, secondo il governo Netanyahu, riflettono una «totale incomprensione» della complessa realtà con il quale il Paese si confronta e “incoraggia” Hamas a persistere sulle sue posizioni.

Nonostante l’impossibilità di fare informazione su un conflitto nel quale sono caduti oltre duecento giornalisti, unici testimoni di un conflitto che si preferisce oscurare - e, nell’infuocato clima del quale, senza troppi riguardi, persino una delegazione Ue finisce, nella ribollente Cisgiordana, sotto i colpi dell’Idf -, la tragica realtà, però, è sotto gli occhi di tutti.

Le vittime palestinesi, in maggioranza donne, bambini, anziani, sono oltre cinquantamila, mentre Hamas, pur decapitata nei vertici, non solo detiene ancora una ventina di ostaggi vivi, ma rimpiazza le perdite con un ampio reclutamento di giovani carichi d’odio verso Israele.

Il tutto in un paesaggio dopo la battaglia che ricorda la Stalingrado 1942-’43 o Berlino 1945, con la stremata popolazione superstite costretta a vivere e vagare tra le macerie in condizioni difficilissime, nel tentativo di sopravvivere non solo alle bombe ma anche alla fame, usata come un arma che si abbatte soprattutto sui più deboli.

È in questo catastrofico scenario bellico, e umano, che le truppe israeliane sono tornate nei giorni scorsi. L’operazione “Carri di Gedeone” punta a concentrare in aree prestabilite popolazione e distribuzione degli aiuti, affidata a fondazioni di fiducia destinate a soppiantare l’Unrwa, la storica organizzazione delle Nazioni Unite messa al bando dagli israeliani con l’accusa di complicità con i palestinesi.

Controllo e concentramento della popolazione che pare preludere, se ci saranno le condizioni, a un forzoso esodo “volontario” destinato a sgomberare i gazawi dalla Striscia. Desertificazione che, unita alla distruzione bellica di abitazioni e insediamenti produttivi, consentirebbe l’annessione di Gaza o la sua temporanea “cessione” fruttifera agli Usa del tycoon Trump, che sogna di farne una riviera in stile Palm Beach.

Intanto, Bibi e i suoi sodali messianici, gruppi nazionalreligiosi e kahanisti di estrema destra, preparano quell’annessione di buona parte dei Territori della West Bank che darebbe il colpo definitivo al progetto dei “due Stati”, tornato in auge dopo il 7 ottobre e sostenuto, oltre che dagli Usa allora guidati da Biden, dal mondo islamico e dall’Unione europea.

Netanyahu ha nella guerra infinita la sola chance di mantenere il potere, sfuggire al giudizio della magistratura e a quello degli elettori; quanto ai suoi alleati Smotrich e Ben Gvir, i due sono decisi a sacrificare tutto e tutti, anche gli ostaggi, a quella concezione attivistica della Redenzione che lega l’avvento messianico al possesso dell’intera Terra di Israele biblica, assai più vasta di quella disegnata dagli attuali confini internazionali.

Prendere atto che questa è la politica del governo Netanyahu non significa mettere in discussione l’esistenza dello Stato di Israele. Tanto meno fare dell’antisemitismo: l’equazione è strumentale e interdittiva.

Così come sostenere i “due Stati” non significa prendere le parti di Hamas, che quell’ipotesi ha sempre respinto in nome di uno stato che vada dal «mare al fiume», posizione peraltro speculare a quella «dal fiume al mare» della destra messianica israeliana, preda di non negoziabili ossessioni etno-religiose.

Vuol dire, invece, lavorare per mettere all’angolo gli estremismi dei due campi, o quanto meno, non fornire loro copertura. Scelta che, con maggiore convinzione, dovrebbe fare anche l’Italia, sin troppo attenta a non dispiacere a Trump e a Netanyahu. 

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