Caso Garlasco, la giustizia senza tempo deve perlomeno aiutarci a capire
Un caso riaperto dopo 18 anni dimostra quanto la realtà sia complessa. Certo, faremmo volentieri a meno di indagini superficiali e grossolane


Che cosa vorremmo dalla giustizia, in particolar modo quando siamo di fronte a un assassinio? Che identifichi il colpevole, possibilmente in tempi rapidi. Che il colpevole sia certo, un solo nome e cognome sino alla fine dei tempi.
Quindi la vicenda attorno alla morte di Chiara Poggi, l’emergere di nuovi percorsi investigativi, dopo un tempo sufficiente a un cittadino per nascere e diventare maggiorenne, confondono e sconcertano.
Si capisce bene che per ottenere la certezza assoluta, 100% di assassini identificati, forse sarebbe necessaria una stretta collaborazione tra forze inquirenti e omicidi stessi. Quest’ultimi potrebbero fornire, dopo il delitto, le proprie generalità o, se riluttanti, lasciare indizi inequivocabili e gli inquirenti, per la loro parte, trattare la scena del delitto con estrema cura, vagliare ogni dettaglio e, soprattutto, utilizzare strumentazione all’avanguardia.
Obiettivi contro il crimine così fantascientifici devono aver ispirato il grande Philip K. Dick, che scrisse una raccolta di racconti, tra cui Minority Report dove immaginava la possibilità di prevedere il delitto prima che accadesse. L’assassino potenziale poteva esser fermato e la vittima rimaneva a godersi la vita. Spielberg, nel 2002, ne ha ricavato un film: mostra come l’uso dei veggenti, ai quali era stata affidata l’individuazione dell’omicida, alla fine non funziona come nel racconto.
Insomma, ci si deve arrendere di fronte alle pulsioni omicide della specie umana? Non solo non si riesce a impedirle, ma si rischia di sbagliare colpevole?
La realtà è più complessa del nostro bisogno di rappresentarla in maniera semplice.
Purtroppo, quando siamo di fronte a uccisioni elaborate, il caso viene risolto brillantemente, e in tempi ragionevoli, solamente nei romanzi polizieschi. Perché l’assassino non può fuggire, essendo intrappolato tra le pagine, dove l’autore fornisce al proprio investigatore gli strumenti, prima di tutto intellettuali, per risolvere il delitto.
Ma è finzione. Nel mondo reale anche Hercule Poirot avrebbe le sue difficoltà. Molti omicidi complicati, soprattutto nel passato, sono rimasti addirittura senza l’identificazione dell’omicida. Sono i cold case, dai quali si è ispirata una famosa serie televisiva americana. Troppo labili gli indizi, troppo distratti o reticenti i testimoni, troppa confusione sulla scena del crimine, tecnologie d’indagine grossolane.
Il nostro bisogno di giustizia rimane profondo, radicato. Fa parte del nostro bisogno di vivere in una società civile. Ma bisogna ammettere che per soddisfare appieno questo bisogno non basta esternare costernazione e sgomento.
Bisogna che aumenti la velocità di crescita della qualità investigativa e questo, forse, vorrebbe dire essere più controllati. Il ministro della Giustizia britannico pare abbia intenzione di sviluppare un programma che miri a identificare i soggetti con maggiore probabilità di diventare assassini, tentando di copiare l’obiettivo di Minority Report: prevenire. Già tacciato di follia distopica!
In questi giorni ci tormenta il dilemma su come andrà a finire la vicenda di Chiara Poggi: sarà stato incarcerato un innocente (Stasi) o invece se ne sta tormentando un altro (Sempio)? Ma questo è il lavoro degli inquirenti.
Come cittadini, sia che si compensi un errore o che si confermi d’aver eseguito correttamente le indagini nel passato, dovremmo sentire la liberazione che deriva dal fare chiarezza. Perché le morti senza giustizia pesano di più, anche se è doloroso riaprire la scatola dei ricordi.
Non dimentichiamoci, nel frattempo, che al 30 aprile nel nostro Paese ci sono 1.108 cadaveri mai identificati. Corpi senza nome. Abbandonati, come dei sassolini, sul lungo sentiero della vita.
Capire, chiarire, è dare un senso. Questo, presto o tardi, deve fare la giustizia. Certo, se facesse presto le vorremmo più bene. —
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