La nuova pace a cui dovremo abituarci

Se mai ci sarà un accordo con Putin i cittadini del Vecchio Continente dovranno imparare ad attribuire al concetto di “pace” un significato diverso da quello che si è costruito, non senza fatica, dopo la sconfitta dell’orda nazifascista nel 1945. Nulla sarà più lo stesso, nemmeno la “pace”

Marco ZatterinMarco Zatterin

Si trovano ragioni di conforto e speranza nel vedere l’Unione europea che, con apparente convinzione e senza troppe stonature, conferma l’impegno per l’Ucraina contro l’aggressore russo, insiste nei tentativi diplomatici a tutto campo per arrivare a un cessate il fuoco, e lancia un fondo flagship per la ricostruzione, auspicando di mobilitare in tempi stretti i primi 10 miliardi pubblici e privati per rimettere in piedi Kiev.

È potenzialmente la strada giusta, quella su cui – secondo l’ottimismo della volontà di Giorgia Meloni - si verificherà «il miracolo della ricostruzione» per Kiev.

L’annuncio costituisce certo un’ottima notizia, eppure vale il minimo sindacale per un Continente votato alla difesa dei diritti e dell’armonia fra i popoli come molla di progresso e sviluppo. Va bene così. Ora non bisogna scomporsi, perché sarebbe un autogol fallimentare.

Soprattutto, servirebbe la tregua e bisognerebbe che fosse vera. Ma questo è un altro film, trama tragica in cui i migliori auspici bruciano dopo pochi fotogrammi.

La frequenza dei bombardamenti segnala che Vladimir Putin non vuole patteggiare se non da un punto di vista di forza. Lo zar continua a recitare la formula imperialista, giura che non rinuncerà agli obiettivi dell’operazione militare speciale lanciata nel febbraio 2022. Sebbene minacciata dal fuoco intestino degli eurosovranisti, l’Ue fa il suo dovere: è il primo donatore per Kiev (165 miliardi); cerca di colloquiare col volubile Trump; guarda avanti, inseguendo i soldi necessari per un dopoguerra che verrà chissà quando; mostra il pugno con la regia della Coalizione dei Volenterosi.

Ciò non toglie che lo scenario sia insidioso. Il segretario di Stato Usa, Marco Rubio, ascolta «la nuova idea» dell’omologo moscovita, Sergei Lavrov, e si dice «deluso e frustrato».

La maggioranza degli analisti non vede la fine, non crede che il Cremlino cederà le conquiste. «L’armistizio verrà con la vittoria russa, o non verrà», assicurano i più. Più che possibile, a essere onesti. Sarà facile pagare quando i droni smetteranno di ronzare nei cieli ucraini.

Nell’attesa, l’Europa deve saper pensare con la propria testa senza inseguire le stravaganze dell’amico americano, reiterando all’unisono il messaggio di sfida a Putin per smontare la sua convinzione di aver vinto. Legittimamente, si può fare.

Tuttavia, se mai ci sarà un accordo, i cittadini del Vecchio Continente dovranno imparare ad attribuire al concetto di “pace” un significato diverso da quello che si è costruito, non senza fatica, dopo la sconfitta dell’orda nazifascista nel 1945. Nulla sarà più lo stesso, nemmeno la “pace”.

Non avrà più il contorno di ideale razionale e dovere morale perseguito attraverso un processo di miglioramento continuo della condizione umana e dei rapporti tra gli Stati (parole di Kant). Il conflitto in Ucraina, come quello a Gaza, ci garantisce decenni di odio implacabile sui quali sarà più che arduo ricomporre la concordia. All’inizio potremmo dirci fortunati se avremo un’assenza di guerra, se si smetterà di morire e le minacce verranno meno.

Non rivedremo presto segnali di consonanza nel “non conflitto”. Il vero miracolo dovrà essere una lenta ricostruzione del senso della pace condivisa, la pace dei vecchi tempi. Quella per cui non basta mettere sacchi di miliardi sul tavolo a cui banchettano gli esseri umani, specie violenta, micidiale e incapace di imparare dalla propria storia.

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