La linea Meloni sull’Ucraina e le dissonanze che stonano

La premier si trova costretta a districarsi tra le due sponde dell’atlantico, dove le posizioni sono diverse

Carlo BertiniCarlo Bertini
La premier Meloni alla Casa Bianca durante i colloqui sulla guerra in Ucraina
La premier Meloni alla Casa Bianca durante i colloqui sulla guerra in Ucraina

Tutti riconoscono (tranne la sinistra) a Giorgia Meloni di aver tenuto sempre, pure quando non era premier, una posizione impeccabile sull’Ucraina. Allo stesso tempo è evidente che oggi (più di ieri) la premier di un governo di destra-centro si trovi in una posizione poco invidiabile: costretta a districarsi tra due sponde atlantiche dove echeggiano musiche dissonanti.

Da leader di un partito sovranista, Meloni è arrivata al summit di Washington senza potersi (e volersi) smarcare da un Donald Trump acquiescente di fronte a Putin quasi ne fosse il portavoce “in partibus infidelium”: pronto ad avvisare Zelensky che dovrà accettare l’invasione dei suoi confini e allineato con lo zar sull’inutilità di una tregua della guerra. Il che di fatto consente ai generali russi di avere tutto il tempo che vogliono per conquistare nuovi pezzi di Ucraina, con il placet degli americani. Non certo il primario auspicio degli europei e della nostra diplomazia, guidata dal leader di Forza Italia, Antonio Tajani, strenuo sostenitore di un «cessate il fuoco subito».

Ora però, a scalfire quella che è stata con enfasi definita la ritrovata unità dell’Europa è stata la diversa postura dei leader al vertice di Washington con Trump: è bastato un frame degli occhi al cielo di Meloni mentre il cancelliere tedesco chiedeva di «mettere pressione alla Russia perché la credibilità dei nostri sforzi dipende dal raggiungimento di una tregua», per capire come non abbia voluto accodarsi a questa pretesa per non indispettire l’amico americano. Si è quindi mossa con astuzia, riuscendo a riportare a casa il risultato di vedere al centro del dibattito la proposta italiana di una sicurezza garantita all'Ucraina dall’articolo 5 della Nato: che obbliga i Paesi a intervenire in difesa di chi subisce attacchi. Senza allinearsi ai duri Merz e Macron.

Alla perentoria richiesta di una tregua sui campi di battaglia del cancelliere tedesco si è unito il presidente francese Macron, che ha aggiunto un carico da novanta: la necessità di un vertice quadrilaterale, poiché l’Europa non può non essere considerata uno dei protagonisti di questa partita, in quanto la resistenza della sua impalcatura dipenderà dal modo in cui si risolverà la crisi Ucraina. Proposta a cui non pare essersi finora allineata l’Italia.

Ma come si è già intravisto martedì, nel day after del summit, la frattura degli europei è destinata ad acuirsi sul dossier più travagliato, l’invio di soldati per mantenere la pace in Ucraina: la «forza di rassicurazione», che andrà collocata dopo la fine della guerra in Ucraina. E di cui nei prossimi giorni parleranno più in dettaglio i generali dei Paesi Ue con i vertici militari americani. Dossier a cui l’Italia intende sottrarsi. Per esigenze di politica interna, per non indispettire Matteo Salvini e la sua base, la premier non vuole sentirne parlare, come dimostra la sua assenza martedì al briefing dei “volenterosi" con Macron e Merz.

Ma se il grande “elefante nella stanza”, ovvero il tema della cessione di territori ucraini ai russi è stato finora eluso pubblicamente, magari è stato affrontato dai leader nei diversi format privati: in ogni modo, di una presa di distanze di Meloni dal “lodo Trump-Putin” - secondo cui Zelensky deve arretrare i suoi confini di un buon 30 per cento - non ve ne è ancora traccia. Questo comporta purtroppo il dover pattinare sulle uova per esigenze politiche.

«Se vogliamo garantire la pace dobbiamo farlo uniti», ha ripetuto con testarda convinzione la premier. Su che piattaforma negoziale andrà costruita questa unità è però tutto da vedere. 

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