Fino a dove tollerare gli estremismi
Fino a che punto possono essere tollerati quegli “atti” compiuti usando parole, da parte di una società che non vuole soccombere all’intolleranza?


Il nemico più pericoloso per le società liberal-democratiche viene dall’interno di loro stesse. Persino negli Stati Uniti d’America dove imperversa The Donald, che sta scardinando le istituzioni della più antica liberal-democrazia dell’Occidente. Le cose non sembrano andare meglio nemmeno in Europa, in Germania, ad esempio, dove il partito AfD raccoglie sempre più consensi. AfD è un partito che gli apparati di sicurezza della Repubblica Federale della Germania definiscono, motivatamente, «un pericolo per la liberal-democrazie tedesca», e si pensa di vietarne le attività.
In Italia la riunione di alcuni esponenti di partiti di quell’area a Gallarate nei giorni scorsi è stata consentita senza problemi dalle autorità italiane, in nome della libertà di espressione delle idee anche le più estremistiche. Chi ha ragione?
Sarebbe un grave errore, dicono in molti, il prendere provvedimenti di messa al bando di simili partiti, oppure anche solo il limitarne le attività, mettendole sotto stretta sorveglianza. Quei movimenti, si dice, nascono dal disagio sociale di vasti strati della popolazioni e l’unico modo per sconfiggerli è quello di eliminare il brodo di coltura in cui allignano, intervenendo a livello economico-sociale per “asciugare” quel brodo, riducendo cioè le disparità crescenti nelle nostre società. Giustissimo. Ma la cosa richiede tempi piuttosto lunghi, e lord John Maynard Keynes, con sano spirito british, ci ha insegnato che «nel lungo periodo saremo tutti morti...».
Nel frattempo, che fare? Scatta qui il ben noto “paradosso della tolleranza”, formulato da Karl Popper ancora nel 1945: tollerare gli intolleranti è la premessa perché l’intolleranza trionfi nella società. Perché è molto più facile far proseliti brandendo l’arma della creazione di nemici che non meritano di essere tollerati piuttosto che difendere e preservare una società tollerante con l’arma della tolleranza indiscriminata e generalizzata. Che si rivelerebbe così una pratica self-defeating, che si distrugge da sé stessa.
Altri filosofi dopo Popper, come per esempio John Rawls, hanno attenuato, per così dire, il paradosso e le sue conseguenze: l’intollerante va perseguito solo se e quando compie azioni sul piano concreto per distruggere la open society, la “società aperta” liberal-democratica nata sul principio della tolleranza, ma non se esprime idee anche facendo proclami che inneggiano all’intolleranza, distruttivi della “società aperta” stessa.
Sembra facile seguire queste sagge attenuazioni del paradosso e delle sue conseguenze. Ma «le parole sono pietre». I discorsi, le parole, sono sempre, più o meno marcatamente, “atti linguistici”, come insegnano gli studiosi del linguaggio.
Dov’è il confine tra il “dire” e il “fare”? Fino a che punto possono essere tollerati quegli “atti” compiuti usando parole, da parte di una società che non vuole soccombere all’intolleranza? Basteranno altre parole di significato diverso a sconfiggere l’intolleranza? O finiamo anche qui sulla strada dei tempi lunghi di lord Keynes? Riusciranno le liberal-democrazie a non finire nella “trappola della tolleranza”? —
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