Auto, retromarcia della Ue sullo stop ai motori termici

La Commissione europea propone agli Stati membri di ridurre le emissioni di CO2 delle vetture del 90% a partire dal 2035, e non del 100%

Marco Zatterin

Ecco la nuova strategia europea per l’auto e la transizione verde.

Dopo anni di polemiche infuocate, la Commissione Ue ripensa le ambizioni climatiche continentali e propone agli Stati membri di ridurre del 90 per cento dal 2035, e non del 100 per cento come originariamente stabilito, le emissioni di CO2 delle vetture prodotte dalle nostre parti. In pratica, rinvia la condanna a morte dei motori termici, lasciando aperto il garage per le tecnologie ibride plug-in e l’autonomia estesa, nonché ai biocarburanti e l’e-fuel, caldeggiati da Italia e Germania.

Il piano presentato ieri dall’esecutivo comunitario stanzia 1,8 miliardi per la filiera delle batterie (quasi tutti crediti senza interessi) e la semplificazione normativa, in particolare per i veicoli commerciali (sotto le 4,25 tonn.) che non avranno l’obbligo di installare i tachigrafici intelligenti.

È previsto un trattamento speciale per le “piccole elettriche”, con condizioni finanziarie d’acquisto agevolate. Dovrebbe essere la fine di uno velenoso gioco di specchi. Il quadro originale e vigente non era il risultato della follia di qualche eurocrate, bensì il frutto delle decisioni dei governi nazionali.

L’intenzione era dare un contributo decisivo alla battaglia per il contenimento dei gas nocivi in modo da rispettare l’impegno di neutralità climatica delle automobili entro il 2050. Era realizzabile, ma occorreva che tutti facessero il proprio dovere. Soprattutto, era necessario un ricco flusso di investimenti sulla rete e a sostegno delle case costruttrici, alle quali si chiedeva un cospicuo flusso di miliardi per l’innovazione. Doveva essere una strategia ben orchestrata dall’intero sistema. Non è successo.

I gruppi motoristici europei, e quello italiano non fa eccezione (ricordate quando la Fiat diceva che l’elettrico non avrebbe mai funzionato?), sono cresciuti al rallentatore senza una visione chiara. Posto che le piccole vetture sono relativamente più costose da realizzare, si è puntato sulle grosse per massimizzare i profitti. Gli asiatici, sfruttando condizioni più favorevoli di sistema e il dumping di Pechino & Co., hanno invaso il mercato delle utilitarie. I listini delle quattroruote europee si sono impennati e i consumatori si sono trovati costretti a cambiare il proprio mezzo con un esborso non indifferente, da soli, senza contributi nazionali sicuri come accaduto negli Usa. Se non bastasse, la limitata diffusione delle colonnine di ricarica ha fatto impazzire la maionese. Comprare un mezzo elettrico è diventato un lusso incartato di incertezza. E il mercato si è fermato.

Davanti ad una crisi (anche politica) e a milioni di posti a rischio, invece che assumersi le responsabilità, i governi se la sono presa con l’Ue e “la tedesca” Von der Leyen, dimenticando che loro stessi avevano recepito il piano di Bruxelles. La Commissione ha pertanto riscritto le norme brandendo bastone e carota. Ci sono margini per salvare un pezzo di output tradizionale e avvicinarsi agli impegni per il 2050.

È uno schema meno temerario che può portare comunque dei risultati. Sarebbe tempo di accettare la nuova cornice, rimboccarsi le maniche per attuarla, farla finita con le controversie e varare un trasparente patto pubblico-privato per l’auto del futuro. Nessuna capitale, al punto in cui siamo, può permettersi di riaprire la partita senza danneggiare i suoi cittadini, la sua industria e, in ultima analisi, se stessa.

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