Nicola Cecconato: «Mercato del gas, con meno gare bollette più care»
Il presidente e ad di Ascopiave sulle ipotesi di riforma della distribuzione. «L’idea di ridurre gli ambiti taglierebbe fuori i comuni impoverendo i territori»

«Se eliminiamo la competizione e creiamo una sorta di granchio blu dell’ecosistema, questo soggetto si mangia tutto». Con questa immagine netta, Nicola Cecconato, presidente e amministratore delegato della trevigiana Ascopiave di Pieve di soligo, sintetizza il rischio che vede all’orizzonte: una riforma delle gare per la distribuzione del gas che, anziché sbloccare il sistema, spalanchi la porta a una concentrazione senza precedenti.
Partiamo dall’impianto regolatorio. Il settore nasce con il decreto Letta del 2000 e il DM 226 del 2011: le gare sarebbero dovute partire nel 2012 e chiudersi in tre anni e mezzo. Ne sono state espletate solo nove. Perché?
«Perché il sistema è troppo farraginoso. Le stazioni appaltanti fanno fatica a gestire procedure complesse, con regole piene di adempimenti e una documentazione enorme. Gli operatori si adeguerebbero, il punto è che così il sistema non produce gare. Non a caso il ministro Pichetto Fratin ha detto chiaramente che questo impianto non funziona e va rimodulato».
In questo vuoto si inserisce l’ipotesi più radicale: ridurre gli Atem a 31, centralizzare le gare in Consip o Invitalia. Una proposta che molti attribuiscono al principale operatore nazionale, Italgas, dopo l’acquisizione di 2i Rete Gas e il salto al 56% del mercato.
«Una centralizzazione così profonda taglierebbe fuori i comuni. Oggi sono enti concedenti e spesso stazioni appaltanti: verrebbero esautorati. La visibilità sugli investimenti passerebbe a strutture lontane dal territorio. Parliamo di enti tutti a Roma: al massimo vedono il Colosseo, non le reti sotto i marciapiedi. E poi c’è il depauperamento. Oggi i canoni concessori si attestano sulla media del 20-30% del vincolo ai ricavi tariffari. Dove le gare non partono, i canoni sono frutto di contratti diretti e possono essere alti; dove le gare sono partite, il tetto è il 10%. Nelle gare di Torino 1 è Torino 2 dove si è presentato un unico operatore siamo rispettivamente al 3,69% e al 2,50%. Significa minori entrate per i comuni, che possono compensare solo con Imu e addizionali. Risultato: territori più poveri e meno voce sulle infrastrutture strategiche».
Dall’altra parte c’è la proposta di Utilitalia: niente macro-aree, concessioni più lunghe in cambio di investimenti stabiliti con i comuni. È la strada che sostenete?
«Sì, la sosteniamo interamente. È l’unica via per conservare competizione e ruolo del territorio. Si prende atto dell’impasse delle gare e si propone di rimodulare la durata delle concessioni a fronte di piani di investimento concertati. Come nella distribuzione elettrica: concessioni di 20 anni, poi si può discutere del numero, ma con impegni vincolanti. In cambio si riconosce il massimo canone, il 10% previsto dal DM 2011, e si permette ai comuni proprietari di reti di venderle agli operatori al valore di Vir. Siccome detengono il 17% delle reti nazionali, significa fino a 1,7 miliardi di risorse potenziali per finanziare progetti locali. È un modello che tiene insieme equilibrio industriale e finanza pubblica».
Sul fronte concorrenza, il mercato vede un operatore, Italgas, sopra il 55% e il secondo, Ascopiave, cioè voi, al 6-7%. C’è ancora spazio per pluralismo?
«Con il sistema attuale sì, se lo facciamo funzionare. Le gare servono proprio a far competere gli operatori. Senza confronto, il settore rischia di far scomparire gli altri operatori. E tutte le forme di monopolio, alla lunga, scaricano i costi sull’utente finale. Il progetto di ridurre gli Atem, inoltre, alza una barriera enorme: il valore medio degli asset passerebbe da 120 a 700 milioni. Vuol dire che noi potremmo partecipare solo dove siamo già presenti; altrove, mettere sul piatto 800 milioni – quasi il nostro market cap – è impossibile. È la fine della concorrenza».
Il Nord Est ha costruito un modello di multiutility pubblico-private che garantisce dividendi e investimenti ai comuni. Che cosa rischia questo ecosistema?
«Rischia di sparire. Verrebbe meno un interlocutore stabile del territorio e verrebbero meno i dividendi ai comuni. L’attenzione si sposterebbe dagli shareholder locali a logiche più alte e centralizzate. E non riguarda solo noi: vale per Hera, A2A, Iren, Acea. Dopo l’operazione Italgas–2i Rete Gas, che è chiaramente un’operazione di sistema, resta un 45% del mercato in mano a utility partecipate dai comuni. È quella quota a mantenere la competizione. Se la togliamo, il settore diventa una monocultura».
Se dovesse indicare tre priorità irrinunciabili per costruire una riforma che funzioni?
«Primo: adottare il modello Utilitalia, con concessioni più lunghe e investimenti concordati. Secondo: se non fosse possibile, senza stravolgere l’impianto normativo, semplificare davvero le regole di gara; non ridurre gli Atem, ma rendere le gare gestibili anche per i comuni piccoli, che spesso non hanno strutture adatte. Terzo: garantire che le reti possano essere adeguate a gas diversi dal metano, perché la transizione energetica passa anche da qui. In una frase: salvare competizione, territori e investimenti. L’alternativa è un sistema più concentrato e, alla fine, bollette più pesanti per tutti».
Riproduzione riservata © il Nord Est








