Moda in ritardo di anni nella sfida del green: 24 miliardi da investire

Le grandi case di fashion al terzo Venice Sustainable Fashion Forum che si conclude oggi. Alla Fondazione Cini presentato un report di The European House-Ambrosetti

Isabel Barbiero

La moda italiana non è ancora pronta a guidare il cambiamento green. Nonostante gli sforzi pionieristici delle grandi case del fashion, come Prada e la sua collezione Re-Nylon di materiale rigenerato, o Gucci e il suo approccio carbon neutral per l’intera supply chain, il settore nel suo complesso è ben lontano dal raggiungere gli standard richiesti dall'Europa per il 2030.

Posizionandosi ben otto anni in ritardo rispetto alle sfide ambientali che dovrebbero essere affrontate oggi. La stima arriva dal report «Just Fashion Transition 2024», l’osservatorio permanente sulla transizione sostenibile della filiera moda di The European House – Ambrosetti (Teha), presentato durante il terzo «Venice Sustainable Fashion Forum» in programma ieri e oggi a Venezia, presso la Fondazione Giorgio Cini.

I risultati dello studio strategico, che tiene conto dei principali comparti della moda (dalla maglieria a calzature, pelletteria, conceria e abbigliamento), mettono in evidenza come negli ultimi sei anni l'industria europea della moda sia riuscita a disaccoppiare la crescita economica dalle emissioni di CO2, diminuendo l’impronta di carbonio assoluta di circa il 30% dal 1990. Ma, nonostante questi ritmi, emerge come la filiera sarà in grado di raggiungere gli obiettivi climatici solo entro il 2038. Come detto, ben otto anni in ritardo rispetto alle sfide del Green Deal. «Le imprese del fashion europeo si trovano di fronte a un bivio: investire oggi o rinunciare ai ricavi di domani» evidenzia il capo della sustainability practices di Teha, Carlo Cici.

Infatti per recuperare il ritardo rispetto al percorso di decarbonizzazione previsto, saranno necessari investimenti addizionali pari a 24,7 miliardi euro entro il 2030. In alternativa, ridurre i volumi di produzione per rimanere entro i limiti di emissione previsti rischia di comportare perdite di ricavi 8 volte superiori.«Una bilancia il cui secondo piatto rischia di arrivare nei prossimi sei anni e pesare fino a 8 volte più del primo» continua Cici, tenendo conto che gli investimenti necessari sono difficilmente sostenibili per il 92% delle aziende italiane, per la maggior parte microimprese e quindi troppo fragili». Sul palco del summit, stakeholders, manager e imprenditori di rilievo, a rappresentare i gruppi globali e le tante realtà di filiera, da Lvmh Métiers d’Arts a Grassi, Pattern, Beste e Magnolab. Tra i pionieri nell’anticipare gli obblighi normativi in tema di sostenibilità, spicca l’azienda Diesel, il brand di denim «più innovativo al mondo»: stagione dopo stagione, il marchio infatti aumenta la percentuale di cotone biologico nelle sue collezioni arrivando al 73% di quello acquistato.

Come spiega Andrea Rosso, figlio del patron Enzo Rosso, nominato ambasciatore del marchio per la sostenibilità, «le tecniche di coltivazioni convenzionali disperdono il 16% di tutti i pesticidi impiegati a livello globale, più di qualsiasi altra coltura. Riteniamo che la scelta più radicale sia quella di creare articoli a basso impatto e rendere la nostra attività circolare». Guidata dall’innovazione, Diesel adotta anche una rivoluzionaria tecnologia di lavaggio che evita completamente l’uso di pietra pomice e sostanze tossiche. Nella logica della sostenibilità anche il calzaturificio di Fossò Salmaso, fornitrice di brand di lusso, ha coronato l’obiettivo del modello di azienda sostenibile e, insieme a lei, emerge Rubelli, un’eccellenza nel settore dei tessuti d’arredamento.

«L’obiettivo è fare della sostenibilità un fattore di competitività per le aziende» ha spiegato l’amministratore delegato Andrea Favaretto Rubelli, «il tema caldo è che ad oggi gli investimenti in innovazione non hanno un ritorno diretto». «La transizione è un driver di crescita che però ha bisogno di un approccio meno regolatorio e più industriale» hanno detto Leopoldo Destro, presidente di Confindustria Veneto Est e il vicepresidente Walter Bertin, «questo summit è un’occasione di analisi e proposte per una filiera strategica del Made in Italy, quale il tessile, le calzature e la pelletteria che, solo in Veneto, supera i 15 miliardi di export e i 100mila addetti. Ma adesso serve un patto tra tutti gli attori perché si vince tutti insieme». Una filiera che, però, continua a frenare sotto il peso di instabilità geopolitica, il calo dei consumi (anche del lusso), l’inflazione e il costo del denaro: il forum “Leading Re-Generation” ha infatti riconosciuto la necessità di avviare un dibattito approfondito verso una transizione più efficace. —

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