Giavazzi: «Europa, il Pnrr sta funzionando. Nuovo debito per la competitività»

Il professore della Bocconi ed ex consigliere economico di Mario Draghi a Palazzo Chigi: «Anche la Germania sta aprendo alla creazione dell’unione  dei capitali»

Giorgio Barbieri
L'economista Francesco Giavazzi
L'economista Francesco Giavazzi

«Nel 2000 negli Stati Uniti le tre aziende che spendevano di più in ricerca e sviluppo erano Ford, General Motors e Pfizer e in Europa Mercedes, Siemens e Volkswagen. Nel 2023 in America sono invece state Google, Meta e Microsoft, mentre nel vecchio continente sono rimaste Mercedes e Volkswagen ai primi due posti e a seguire Bosch. Questo dimostra che l’Europa si è fermata alla rivoluzione tecnologica. Per colmare le differenze con Stati Uniti e Cina ora servono investimenti per 800 miliardi di euro per i prossimi cinque anni». Francesco Giavazzi, professore alla Bocconi e già consigliere economico di Mario Draghi a Palazzo Chigi, ha partecipato alla stesura del Rapporto sulla competitività europea consegnato dall’ex presidente della Bce a Ursula von der Leyen.

La vittoria di Trump costringe l’Europa a ripensare sé stessa. Quale direzione indica il Pano Draghi?

«Il punto di partenza è il reddito pro capite: nel 1945 quello europeo si era ridotto a meno di un terzo di quello americano. Poi l’Europa si riprese e in 50 anni il divario con gli Usa era stato colmato. A metà degli anni ’90 ha però ricominciato a crescere e oggi il reddito pro capite europeo è di nuovo inferiore, di un 20% circa, rispetto a quello americano».

Perché?

«Negli anni Novanta in Europa si è esaurita la fase di crescita per imitazione, basata sul copiare, e spesso migliorare, prodotti inventati dagli americani, come ad esempio le automobili tedesche e gli elettrodomestici italiani. Quando però un’economia raggiunge la frontiera della tecnologia, crescere per imitazione non è più possibile e deve innovare. Ma serve saperlo fare. Ma le istituzioni che aiutano un Paese a “copiare”, grandi banche o grandi imprese, non sono le stesse che servono per innovare».

E ora cosa serve all’Europa?

«Un mercato dei capitali agile pronto a finanziare idee nuove. Ricercatori e imprenditori capaci di trasformare in imprese le idee sviluppate nei laboratori delle università. Ma i numeri ci dicono che tra le prime 50 università al mondo solo tre sono in Europa, mentre 21 hanno sede negli Stati Uniti e 15 in Cina. E non va meglio per i distretti tecnologici: tra i primi dieci al mondo nessuno è europeo. Non serve inventare una nuova politica industriale, ma creare un ambiente di ricerca ed economico adeguato».

Come?

«Cominciando dalle banche che devono diventare più agili e più pronte a finanziare idee nuove, anziché imprese magari solide ma vecchie. E poi ripetendo l’esperienza di finanziamento con debito europeo comune iniziata con il Pnrr che sta funzionando, pur al netto di qualche difficoltà».

E quanti soldi serviranno?

«La Bce stima che solo per la transizione verde, la digitalizzazione e il rafforzamento della sua difesa militare, l’Ue avrà bisogno di circa 5.400 miliardi di investimenti aggiuntivi nel periodo ’25-’31, cioè quasi 800 miliardi all’anno di nuovi investimenti. Buona parte di questi dovranno essere utilizzati per la riallocazione di capitale e lavoro per la transizione verde».

Su questo fronte le Confindustrie locali chiedono uno slittamento dei tempi dicendo che non si possono sacrificare centinaia di migliaia di posti di lavoro sull’altare del Green Deal. È d’accordo?

«La direzione è quella del Green Deal e sono convinto che non si possa tornare indietro. E ne è convinto, per fare un esempio, anche l’Ad di Bmw. Il resto sono scelte politiche. Nel Rapporto si suggerisce di individuare soluzioni tecnologicamente neutre e che considerino l’intera filiera. Nel triangolo industriale Bologna-Padova-Torino ci sono subfornitori dell’automotive tedesco che se non cambiano non hanno futuro. Compito dell’Europa è finanziare la riqualificazione di lavoratori e impianti».

La nascita di grandi gruppi bancari europei è uno dei pilastri per la competitività. Ma UniCredit ha trovato le barricate sia in Germania che in Italia.

«Innanzitutto, come ho detto prima, le grandi banche devono cambiare e imparare a finanziare idee e imprenditori non solo aziende solide ma vecchie. A Berlino temono che, in assenza di una vera Unione dei mercati dei capitali, potrebbero dover pagare loro in caso di fallimento dell’istituto. Ma anche la Germania sta cambiando. Stanno aprendo alla creazione dell’unione dei capitali e a finanziare con debito comune specifici investimenti per la competitività dell’Europa. Per quanto riguarda l’offerta di acquisto per il Banco Bpm, il ministro Giorgetti ha evocato il Golden Power, pensato per proteggere settori strategici italiani da aziende straniere. Non mi sembra sia questo il caso ».

All’inizio abbiamo parlato di Donald Trump, come valuta le sue prime mosse sul fronte economico?

«Ha sorpreso i mercati, che hanno reagito positivamente, con la nomina di Scott Bessent a Segretario del Tesoro. Questo dimostra che sta prendendo le distanze da Elon Musk e che ha chiaro di aver bisogno di persone in grado di tranquillizzare gli investitori».​​​​​​

 

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