Giulio Buciuni e la fuga dei giovani dal Nord Italia: «Senza capitale umano non c’è futuro»

Alle prese con una contrazione demografica ampiamente documentata, l’Italia si trova a fare i conti con l’esodo di una parte del suo capitale umano maggiormente qualificato. È un doppio colpo per l'economia del Paese. Da un lato, investiamo nella formazione di giovani che andranno a portare il loro talento in altri luoghi, contribuendo allo sviluppo dei Paesi ricettori; dall’altro, ci stiamo privando del fattore maggiormente rilevante nell'economia della conoscenza, il capitale umano.
È questa l'emergenza più pressante con cui ci troviamo a convivere e che, se non affrontata, rischia di compromettere la futura tenuta del Paese. L’emigrazione è un fenomeno che conosciamo. Dai flussi migratori verso le Americhe di inizio ’900 a quelli più recenti verso Germania e Inghilterra, l’Italia è da sempre un grande serbatoio mondiale di professionalità e manodopera. Tuttavia, l’emigrazione di italiani che stiamo conoscendo negli ultimi anni porta con sé nuove condizioni, a cominciare dal fatto che riguarda spesso giovani studenti e professionisti in possesso di titoli di studio avanzati. Mentre la contrazione della natalità è ampiamente conosciuta, l’esodo di centinaia di migliaia di giovani è ancora largamente ignorato: rimane forte la sensazione che le istituzioni non riescano, o non vogliano, a riconoscere l’entità del problema.
Un contributo particolarmente utile ci arriva ora dallo studio pubblicato dalla Fondazione Nord Est. Tra il 2011 e il 2021 i sei principali Paesi di destinazione di italiani tra i 18 e i 34 anni hanno accolto 127.000 giovani provenienti dal Nord Italia, certificando un flusso che non riguarda solamente le regioni più arretrate. Nello stesso arco temporale, il Nord Italia ha attirato solo 17 mila giovani stranieri dai medesimi sei Paesi, manifestando un evidente problema di attrattività.
Una parte rilevante dei giovani emigra dunque dalle ricche regioni del Nord e lo fa portandosi in tasca un titolo di studio secondario o terziario. Perdiamo una parte dei nostri giovani maggiormente qualificati e con elevata capacità di spesa che, mostra la ricerca, si spostano motivati dalla ricerca di opportunità di lavoro migliori.
È questo a ben vedere l’elefante nella stanza che le istituzioni e la classe dirigente del Paese si ostina a non vedere. Mancano per i giovani opportunità di lavoro adeguate alle loro aspettative. Mancano, in particolar modo, salari che diano dignità al talento e ai curriculum di una parte considerevole di ragazzi, costretti ad accettare retribuzioni lorde che difficilmente superano i 30 mila euro l’anno, anche per chi è in possesso delle tanto ambite lauree Stem.
È un problema che non può più essere rimandato e che trova origine nella bassa produttività di una parte rilevante delle nostre imprese. Tanto quelle dei servizi, in grande parte operanti in attività a basso valore aggiunto come il turismo e la ristorazione, tanto quelle che competono nei settori industriali del Made in Italy, dove le dimensioni medie non superano i sei addetti.
Il Nord Est non è immune da questo fenomeno e, infatti, ha registrato nel periodo 2011-2021 un saldo netto negativo di 65.000 giovani. È evidente che la tanto decantata qualità della vita non basta più. O forse continua a bastare solo a quelle classi demografiche che hanno in mano il cruscotto di controllo del Paese. È proprio a loro che si chiede con forza di riconoscere l’esistenza di un problema che comincia ad assumere una dimensione drammatica.
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