Fondo d’investimento, 700 milioni per il “food”

Non bastano buoni prodotti e nemmeno un’attenta gestione d’impresa. In un settore ipercompetitivo e che richiede ingenti investimenti tecnologici per l’ammodernamento di macchinari e impianti come l’agricoltura, la finanza sta assumendo un peso via via crescente. Si spiega così la scelta del Fondo italiano d’investimento, creato nel 2010 su iniziativa del ministero dell’Economia e delle Finanze e partecipato a maggioranza da Cdp Equity, e per le rimanenti quote da Intesa Sanpaolo, Unicredit, Abi e Confindustria, che ha annunciato il prossimo lancio di un fondo denominato “Agritech & Food”, interamente dedicato all’agroalimentare italiano.
I numeri
Il veicolo, con una dimensione target di 700 milioni di euro, fornirà capitale alle Pmi per favorirne la crescita in un’ottica di medio-lungo periodo. Il Fondo prevede un focus strategico sui segmenti più all’avanguardia e con maggiore potenziale di sviluppo come precision farming, sementi, chimica verde per l’agricoltura, tecnologie per la produzione di bio-energy, prodotti agricoli e relativi processi di trasformazione industriale, e-commerce. Obiettivi di rendimento ed etici convivono, con il Fondo italiano che darà il suo contributo al raggiungimento di alcuni Obiettivi di sviluppo sostenibile individuati dall’Onu, tra cui in particolare “Buona occupazione e crescita economica”, “Imprese, innovazione e infrastrutture” e “Consumo e produzione responsabili”.
Aziende e prospettive
Tra le aziende che potrebbero entrare nel portafoglio del fondo vi sono le vitivinicole a caccia di risorse per crescere. Il mercato globale del vino vale in volumi circa 25,8 miliardi di litri nel 2020 (stabile rispetto al 2019), con cinque Paesi che rappresentano oltre il 60% della produzione globale e l’Italia in testa con il 18%. «Per i prossimi anni i consumi mondiali sono attesi in crescita intorno al 2,7% annuo, con valori più elevati per vini frizzanti (escluso lo champagne», racconta Gianpaolo di Dio, chief investment officer di Fondo italiano. L’Italia è il terzo mercato del vino in Europa e il quinto a livello globale, con una crescita costante negli ultimi cinque anni. Quanto alle nuove tendenze, l’esperto segnala che nei mercati tradizionali i trend salutisti hanno stabilizzato i consumi di vino, ma i Paesi emergenti sostengono la crescita a scapito dei drink tradizionali.
L’Italia
Quanto alla Penisola, lo scenario è diversificato, con i territori del Mezzogiorno che continuano a valere mento di un terzo delle vendite di vino italiano. Di Dio segnala tre cluster di produttori: gli heritage brands, che costituiscono il nucleo del vino di qualità italiano: ne fanno parte ad esempio Frescobaldi, Antinori, Sassicaia, Gaja, Marchesi di Barolo, Ruffino, Banfi, Masi, Ca’ del Bosco e Ferrari. «Questi produttori sono focalizzati su vini sofisticati, legati a tradizione secolare, posizionamento top-price e focus su consumatori sofisticati e high-end».
Poi vi sono i produttori regionali e newcomers, come ad esempio Feudi di San Gregorio, Firriato, Donna Fugata, Planeta, Jermann, Felluga e Santa Margherita. «Questa categoria ha quote di mercato crescenti grazie a un approccio consumer-centric, prodotti con ottimo rapporto qualità/prezzo», spiega Di Dio.
Che segnala soprattutto il caso di Santa Margherita, di proprietà della famiglia Marzotto, «che è uno dei primi esportatori negli Usa, grazie alle vendite di pinot grigio, meno diffuso in Italia, ma molto gradito dai consumatori americani». Infine, vi sono gli operatori asset-light” ovvero imbottigliatori e distributori, con bassa percentuale di uva auto-prodotta, come Farnese, Botter, Mondo del Vino, Fratelli Martini, Italian Wine Brands.
«Questi player sono concentrati sull’efficienza operativa e commerciale, con focus sui volumi e su vini di bassa o media qualità, con parte del fatturato attraverso private label per gdo e grandi distributori internazionali che richiamano la cultura e la provenienza italiana», conclude. —
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