L'ad di Generali Donnet: «Patto pubblico-privato per il rilancio Ue, i fondi ci sono, spesso mancano i progetti»

L'INTERVISTA
«Riecco l'Europa», sospira Philippe Donnet, uno che l'Europa era lì ad aspettarla. Dice subito, l'amministratore delegato delle Generali, che «il Recovery Fund è un evento unico nella storia dell'Unione» e che, lui, «aveva sempre auspicato che ci fosse più Italia in Europa e stavolta è successo». Poi si ferma e fa una pausa, perché siamo soltanto all'inizio e «fra la decisione di spendere e l'arrivo dei soldi sul territorio c'è un circuito complicato». Sarebbe «un peccato spenderli male o non spenderli tutti».
Per questo auspica un patto fra Pubblico e privato nel nome della ripresa. «Mancano più spesso i progetti che i fondi», concede. E questo è il tempo in cui «ognuno deve fare la sua parte». L'uomo che conduce la compagnia del Leone, francese di nascita, europeo per vocazione, italiano per passione, ammette che i tempi sono duri, che «il virus non è certo una storia felice» eppure nota che «alla fine l'Ue ne esce bene».
Chiede di non parlare di assicurazioni: arriva la semestrale e le regole non lo permettono. Per l'economia a dodici stelle, la sua crisi e le sue opportunità, fa una eccezione alla regola del silenzio. «Non più tardi di tre mesi fa l'Europa era accusata di inerzia di fronte all'emergenza del Covid - 19 - spiega in un italiano appena venato dalla lingua madre - Poi è cambiato tutto: è stato sospeso il patto di stabilità, la Bce è intervenuta con tempismo straordinario, e ora il Recovery Fund costituisce il primo passo importante verso una forma molto più stretta di coordinamento finanziario tra gli stati. Per la prima volta, l'Unione si impegna ad erogare ingenti misure di solidarietà a fondo perduto».
Dietro l'accordo ci sono ancora pesanti contrasti fra gli Stati.
«L'idea di Europa nella quale mi ritrovo si fonda su valori forti, sulla solidarietà e sul riconoscersi in un futuro comune. Questo genere di sogni richiede sforzi che traguardano le generazioni. E può passare attraverso momenti di duro contrasto e di negoziati apparentemente irrisolvibili, come abbiamo visto nell'ultimo vertice. Ma dai contrasti forti può nascere unità. Pensiamo a quello che succedeva alcuni anni fa: la Germania o la Francia si trovavano spesso su posizioni radicalmente diverse dall'Italia. Oggi invece l'alleanza tra questi tre Paesi ha consentito che si arrivasse all'accordo. È un percorso lungo, e l'Europa ha bisogno di leader capaci e visionari per portarlo a termine».
È il populismo il vero virus europeo?
«Non vedo virus europei. Per difendere e far progredire il disegno europeo servono istituzioni più solidali e più inclusive, occorrono leadership politiche impegnate a rappresentare l'interesse generale, le aziende devono perseguire una crescita sostenibile e il benessere diffuso».
Ora occorre che la crisi generata dal Covid-19 sia domata in fretta. Se potesse decidere lei, quale sarebbe la ricetta?
«Non ho formule magiche ed è compito della politica prendere le decisioni. Ciò detto, dalla crisi potremo uscire solo attraverso un grande sforzo comune tra settore pubblico e privato. Una delle lezioni di questi mesi è che dobbiamo essere attrezzati meglio per prevenire e affrontare, a livello sanitario ed economico, altre eventuali pandemie o crisi sistemiche».
Come lo immagina il patto pubblico-privato per il rilancio?
«Lo stato azionista funziona bene solo in alcuni settori. La cooperazione fra stato e privato funziona bene negli investimenti, perché la pubblica amministrazione e la politica possono fare molto per agevolare i processi. Spesso mancano i progetti, non i fondi per finanziarli. E allora è necessario creare opportunità, indirizzandole perché abbiamo effetto sulla sostenibilità e l'economia verde. Tutte le energie devono esser mobiliate nella stessa direzione. Nel nostro settore ciò sarà possibile solo se la regolazione lo incentiverà».
Intanto, la parola d'ordine è bisogna crescere. Dopo il lockdown, a che punto è la crisi?
«È una crisi con pochi precedenti. Il calo del pil, la disoccupazione, la contrazione dei redditi e l'aumento della povertà sono effetti della pandemia sulla cui durata è difficile fare previsioni. Mai come oggi viviamo nell'incertezza. Forse è proprio questo che spaventa di più. Una priorità è considerare gli effetti permanenti della pandemia sul modo di lavorare, che si aggiungono a due grandi trend in corso da anni che stanno modificando ampi settori del lavoro tradizionale: uno è rappresentato da robotica e intelligenza artificiale, l'altro dalla "green economy", che guiderà sempre di più investimenti e decisioni politiche».
Ha più volte espresso la convinzione che l'asse franco tedesco dovesse essere allargato. E che l'Italia dovesse avere più voce in capitolo. Sta succedendo?
«Mi pare di sì. Basta guardare al Recovery Fund: all'Italia va la parte più consistente del piano, 209 miliardi, ed è un segnale evidente di autorevolezza. Credo poi che la Brexit stia favorendo una ridefinizione delle alleanze in cui l'Italia avrà un ruolo importante. D'altra parte, è inevitabile che, in qualità di Paese fondatore e tra le più importanti economie del mondo, l'Italia debba rientrare tra i leader del continente. Infine, ha la fortuna di poter contare su un presidente della Repubblica che ha fatto dell'Europa la bandiera a cui ancorarsi».
L'Italia vuole pesare di più. Può farcela senza riforme?
«Le riforme sono necessarie per la crescita e il benessere. Se ne parla da decenni, e bisogna tenere conto che non partiamo da zero, molte ne sono state fatte. L'Italia dovrà investire in infrastrutture, nella trasformazione digitale del Paese, nella transizione energetica. Sarà indispensabile la semplificazione della burocrazia e la velocizzazione dei tempi della giustizia: solo così potremo attrarre investitori dall'estero e riportare il Paese su un terreno di crescita sostenibile. È un momento unico per riformare il Paese: l'Italia avrà fondi ingenti e una certa libertà da vincoli di bilancio. Se non ora, quando? ».
C'è chi pensa che i fondi non saranno spesi tutti.
«È una possibilità. La sfida, particolarmente in Italia, è farli arrivare al più presto, laddove servono, per dare impatto sull'economia, sull'occupazione, sulla transizione energetica e digitale. Non spendere tutto, sarebbe un peccato».
Aiuterebbero dei parametri sostenibilità autoimposti?
«Assolutamente sì. È una opportunità unica che l'Italia non può perdere». Quanto pesa una politica frammentata e litigiosa sulle possibilità di rilancio italiano? «Purtroppo, la politica è spesso stata frammentata e litigiosa. Oggi tutto questo è continuamente amplificato da una eco senza precedenti dei mezzi di informazione digitali. In questo contesto, esercitare la leadership, e svilupparne di nuove, è molto difficile. La politica è quella che ne soffre di più».
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