Gajo: «Imprese, in arrivo una selezione darwiniana. Servono le aggregazioni»

«Ci avviamo verso una fase economica complessa che imporrà una selezione darwiniana delle imprese. Anche a Nord Est, un territorio marcatamente padronale, non ci sarà spazio per tutti. E nei prossimi cinque o al massimo dieci anni sopravviveranno e cresceranno quelle realtà che già oggi sono consapevoli che la dimensione piccola non è più sufficiente e si apriranno alle aggregazioni. Capisco perfettamente le difficoltà di questo percorso. Ma è come un matrimonio: i vantaggi sono statisticamente superiori agli inconvenienti».
Parola di Gianni Gajo, 83 anni, uomo d’impresa e di finanza, partner fondatore e presidente di Alcedo dal 2000 con un passato in realtà come San Remo, Marzotto, San Paolo Imi, Permasteelista e 21 Investimenti. Negli ultimi decenni Gajo ha assistito all’evoluzione dell’impresa nordestina e, forte anche della sua laurea in Psicologia oltre che in Economia, offre la sua chiave di lettura a imprenditori e manager per capire come adattarsi ai continui cambiamenti economici imposti dal disordine mondiale.
Le aziende del Nord Est sono soprattutto familiari e di dimensione medio/piccola. Condizione che permette di adattarsi rapidamente ad ogni circostanza. Ma in un contesto di competizione globale non rischia di diventare un freno allo sviluppo?
«La dimensione dell’azienda veneta non è adeguata alle sfide dei prossimi anni. La parola chiave è aggregazione: gli imprenditori devono capire che se si aggregano miglioreranno, se non lo faranno andranno incontro a immani fatiche. Il piccolo e bello non funziona più. Se in uno stesso settore un’impresa fattura 20 milioni, una 12 e una 25 è probabile che nessuna delle tre resista alla concorrenza. Avrebbero molte più possibilità di crescita se si aggregassero».
Un discorso che a Nord Est piace poco.
«C’è un po’ la sindrome del padrone e non si capisce che il concorrente potrebbe trasformarsi in un ottimo alleato. Le compatibilità merceologica, tecnologica logistica di marketing si può sempre trovare. Il problema spesso sono le persone e su questo fronte siamo ancora molto indietro. Per il futuro serve flessibilità e capacità di innovare che devono permeare tutto il sistema».
Prima la guerra in Ucraina, che ha fatto esplodere il costo delle materie prime, poi il conflitto in Medio Oriente che ha messo sotto pressione l’intero settore della logistica. Le imprese sono in grado di diversificare i mercati?
«Non tutti sono in grado di percepire i grandi cambiamenti. È molto più semplice fare investimenti quando è il sistema a imporlo. Tuttavia resto ottimista: siamo troppo abituati a denigrarci, ma esistono aziende che sono formidabili e ambitissime dagli Stati Uniti e dalla Cina. Penso a Bauli, Pedrollo, Carel, Came, Nice. Tutte aziende non piccole ma neanche grandi e che rappresentano l’eccellenza italiana».
Alcune della quali hanno anche conquistato i mercati internazionali.
«Rana ad esempio fa un fatturato eccellente negli Stati Uniti dopo aver aperto gli stabilimenti grazie alle intuizioni di Giovanni e del figlio Luca. In questo caso mi hanno colpito i differenti tempi della burocrazia: negli Stati Uniti ci sono voluti undici mesi per avere tutti i permessi, mentre per lo stabilimento di Verona sono stati necessari sette anni».
E nel caso italiano neanche il sistema politico aiuta.
«Un inconveniente ma anche un vantaggio. Siamo così abituati a gestire le aziende e la vita all’interno di un sistema non organizzato dalla politica che ne abbiamo guadagnato in rapidità di azione. In Germania invece, come vediamo in queste settimane, basta un assestamento e il sistema va in crisi».
Il Nord Est può tornare ad essere locomotiva?
«Non sono allarmista né troppo ottimista, sono in una saggia via di mezzo. Nel Nord Est ci sono esempi clamorosi come la Luxottica ma, per tenerci nella media, ci sono aziende sane, serie e dove c’è molta voglia di fare, di innovare e di rischiare. A queste ricordo quanto disse il fondatore della Mitsubishi a chi gli chiedeva quale fosse il segreto del suo successo: non commettere due volte lo stesso errore».
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