La Fed abbassa i tassi dello 0,25%: ecco i possibili effetti sull’economia mondiale
Il presidente Powell sceglie il taglio dopo mesi di immobilità in cui ha sfidato Trump. La delibera segna una divergenza nella governance globale che, alla lunga, potrebbe diventare dannosa


La Federal Reserve si è mossa. Determinato a difendere l’indipendenza e la credibilità della sua istituzione, il presidente Jerome Powell ha deciso solo mercoledì di tagliare i tassi di riferimento a stelle e strisce di un quarto di punto (a 4/4,25%), dopo mesi di immobilità in cui ha sfidato il pressing di un Donald Trump che non ha esitato a chiedere la testa del banchiere centrale definito «zucca vuota» e «sempre in ritardo».
Prima non riteneva che ci fossero le condizioni e una limatura del costo del denaro senza ragione avrebbe deteriorato l’attendibilità della Fed e il suo ruolo di garante del dollaro. Ora lo sfondo è cambiato, l’inflazione elevata e l’occupazione in frenata giustificano una prima sforbiciata che avrà conseguenze globali, ma non placherà l’ira del turbinante inquilino della Casa Bianca che, ancora nei giorni scorsi, aveva auspicato una riduzione di un punto. Non poteva succedere e non è successo.
L’ultima volta era stata in dicembre, quando la Fed ha congelato il costo del denaro americano al 4.25/4.5% dopo essere calato di un punto percentuale in dodici mesi. Poi è arrivato Trump, seminatore di indeterminatezza con le sue guerre commerciali e lo scenario economico si è fatto ambiguo al punto da consigliare prudenza e immobilismo.
Powell è rimasto fermo, alla faccia delle ingiurie di Washington che invocava sostegno a difesa della gracile congiuntura del Paese. È stato invitato a farsi da parte, opzione che non ha considerato. Il tycoon lo ha coperto di contumelie, per poi prendersela con Lisa Cook, uno dei sette membri del consiglio della Fed newyorkese. L’ha licenziata per una presunta irregolarità, salvo doverla reintegrare per ordine dei giudici federali. Niente da fare. Il numero uno della Fed ha tenuto durissimo.
L’onore è salvo, e il dollaro non perde altra credibilità, sebbene sia impossibile dire che la decisione non avrà effetti. Anzitutto, la delibera della Fed segnala una crepa nella governance globale, una divergenza negli orientamenti delle principali banche centrali planetarie che, alla lunga, potrebbe essere dannosa. La scorsa settimana la Bce non ha toccato i tassi, altrettanto si apprestano a fare il Giappone e la Bank of England.
L’effetto sarà l’ampliamento del differenziale dei rendimenti dei titoli di Stato reciproci e dunque un rafforzamento dell’euro a scapito dei biglietti verdi. Non è un bene per l’Europa, dove un export già provato dai dazi unilaterali potrebbe patire la nuova ragione di cambio. Mercoledì per comprare un euro occorrevano un dollaro e 18 cent. Lo scorso gennaio si era alla pari.
Nei palazzi del potere europeo si ritiene che arrivare stabilmente al livello di 1,2, cioè a una rivalutazione dell’euro del 20% in un anno, possa minacciare il Vecchio Continente. Da questa parte dell’Atlantico la crescita è già mediamente bassa (+0,1 nel secondo trimestre con l’Italia in rosso), l’occupazione è a rischio, le locomotive tedesca e francese vanno a rilento e non si conosce esattamente il pedaggio da pagare ai dazi trumpiani quanto a vendite all’estero. Non bastasse, ci sono due guerre alle porte, equilibri geopolitici precari e una diffusa quanto deflagrante turbolenza politica che complica le intese e la reazione dei governi europei. L’indebolimento del dollaro è la ciliegina bacata su una torta che sta andando a male, anche se renderà meno esosa la bolletta energetica e petrolifera.
In attesa di vedere se il più facile accesso alla liquidità ridarà tono al motore dell’economia americana e al suo mega-debito, si può immaginarne l’effetto positivo sulle Borse e anche sul mercato dei titoli di Stato, che vorrà quelli già in circolazione a più alto rendimento. Probabile un’ulteriore impennata dell’oro. Gli analisti immaginano altri due interventi Usa entro dicembre.
In dicembre ritoccherà alla Bce che, se l’inflazione sarà salda, potrebbe dare ossigeno alla nostra congiuntura e riallinearsi alla Fed. Non è detto. Viviamo mesi di incertezza globale. E se non si sa dove andare, non c’è mai un vento abbastanza buono che possa confortare il capitano di una nave.
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